Agostino

di Luciano Deriu

Il mio vicino di banco si chiamava Agostino, testa ricciuta, un bosco di capelli. Eravamo svogliati. Avevamo però una brava professoressa che ci seguiva da vicino in un rapporto attento e affettuoso e così riuscivamo a cavarcela. Lui aveva prestazioni da atleta nell’unica materia che più gli piaceva, la ginnastica. Io dimostravo talvolta qualche punta di eccellenza nelle composizioni scritte. Alle volte la Professoressa leggeva il mio “tema” e faceva la faccia sorpresa: l’hai scritto tu? Sicuro? Poi partiva a leggere quel compito nella classe vicina.

Finita la scuola media, non sapevamo bene che fare. Eravamo spaesati. Agostino disse che i nostri amici erano andati alle magistrali e con quella solida motivazione ci iscrivemmo alle magistrali. La mattina prendevamo il treno per Sassari, seduti su dure panche di legno e andavamo su e giù. Dopo una settimana, Agostino mi comunicò una decisione subitanea. La scuola non era per lui. Me lo disse mentre il treno si metteva in moto, poi aprì la porta e con un balzo acrobatico si gettò dal treno in corsa; mi scaraventai al finestrino per vedere che cosa fosse successo. Lui si rialzò subito sorridente, niente! mi gridò, tutto a posto, mi salutò con la mano e i ricci al vento. Era così: istintuale, istantaneo, imprevedibile.

Io andai su e giù per un altro mese, ma quella scuola non mi piaceva. Un giorno mi sentì chiamare dalla nostra Professoressa, quella che, unica, aveva colto in me un barlume di talento. Dove credi di andare? Mi chiese con voce severa. Devi andare al liceo classico. E poi all’università. Subito, senza discutere. Ma il latino, il greco, tutte quelle cose difficili, ad anno iniziato, come le avrei recuperate? Ci avrebbe pensato lei a darmi lezioni private, senza compenso alcuno. Così iniziai il nuovo percorso; lei mi seguì da vicino per molto tempo. Si chiamava Efisina Bilardi e io non l’ho mai ringraziata per aver indirizzato nel modo giusto il corso alla mia vita.

Agostino si iscrisse anche lui al Ginnasio, ma la scelta l’aveva ormai fatta su quel treno in corsa. E così, dato che l’edificio della scuola era a piano terra, in un momento di disattenzione dell’insegnante, si dileguava dalle lezioni, saltando dalla finestra. Aveva preso tutt’altra strada. Faceva solo ciò che gli piaceva fare; non finì l’anno di scuola e si rese libero come un uccello. Così fu per gli anni a seguire. In giro lo chiamavano “L’Ozio”, ma non era ozioso, praticava piuttosto una filosofia istintuale e creativa, un po’ artista, un po’ giocoliere, un po’ poeta. Non cercava lavoro, anzi aveva cominciato a teorizzare il rifiuto consapevole del lavoro. Erano tempi in cui in Italia movimenti politici di sinistra-sinistra avanzavano idee proprio sulla negazione del lavoro salariato, visto come alienazione sociale. Ma quelli avevano un pantheon di riferimento, pensatori a cui ispirarsi, obiettivi politici per i quali lottare. Agostino li ignorava, aveva abbracciato una scelta antisistema, senza ideologie, in maniera tutta personale; la vita libera, slegata da vincoli salariali, era per lui un percorso naturale. I bisogni e i consumi li aveva ridotti al minimo; zoccoli di legno e giacchino jeans ultravissuto erano la divisa permanente, estate e inverno.

Era diventato un riferimento per i ragazzi che abitavano sui Bastioni, quelli della “Muraglia”, un variegato gruppo antisistema, stessa divisa, zoccoli e jeans sdruciti. Bravi ragazzi considerati “duri nessuno di loro aveva un lavoro sistematico, al massimo qualcosa di molto saltuario; qualcuno si spingeva a pescare sotto costa magari con il  “rall”, la rete a lazo, senza disdegnare l’uso delle bombe. Io ero ammesso a distanza: andavo al liceo e perciò sospettato di intellettualità, un outsider. Ma con Agostino c’era molta empatia. Lui aveva potenziato le capacità atletiche e stupiva tutti per le sue prestazioni acrobatiche; riusciva a percorrere il lungo lungomare di Alghero, camminando per 30 minuti in verticale poggiandosi unicamente sulle mani. Aveva potenziato anche la genialità; negli inverni freddi di quegli anni, in una Alghero quasi deserta, seduti sui marciapiedi della Passeggiata, la panchina per schienale, non ci si annoiava mai; Agostino creava all’impronta poesie o canzoni, io lo accompagnavo con la chitarra, quattro accordi, sempre gli stessi. Quelle canzoni non le metteva mai per iscritto, noi le imparavamo a memoria, si diffondevano magicamente nell’aria, correvano lungo i bastioni e diventavano inni, pezzi d’identità, per la Muraglia.

Questo accadeva quando gli inverni erano ancora molto freddi e, come dice il poeta, quando eravamo tutti poveri e felici.

Dedicato a Efisina Bilardi

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