Tre passi e mezzo

Tre passi e mezzo ©

Capitolo 1

di Valeria Solinas

Guardo la curvatura dei rari passanti nella penombra dei vicoli fiocamente illuminati di notte. Ogni figura mi fa sobbalzare, studio con attenzione le distanze che ogni mio sguardo, ombreggiato dalla luna rarefatta, registra in maniera distorta e inesatta. Tre passi e mezzo ci separavano, da un ingresso all’altro. Tre passi e mezzo in cui la vita scorreva e inghiottiva il silenzio surreale delle nostre vite, in quest’epoca di Covid-19.

Qui ad Alghero d’inverno l’odore delle alghe sembra attanagliare tutta la costa. Ti entra su per le narici e la bocca e si allarga dentro i polmoni, come se lo iodio avesse necessità di spanciarsi tra gli alveoli del corpo. Quell’odore a me familiare si comporta esattamente come il Coronavirus, rischia di non lasciarti più, ti attanaglia e ti scaraventa nell’abisso. L’idea di rimanere chiusi in casa per evitare la pandemia mi costringe a sognare la libertà di una camminata estiva in sottoveste all’ora del crepuscolo al mare o la mattina presto, quando i gabbiani allietano la sveglia con il trionfo del loro garrito. Adesso che anche l’inverno è finito, quel sogno si è infranto con i flutti che trascinano la posidonia, lasciando il posto a un risveglio spiacevole, disincantato, frutto di costrizioni indesiderate e stringenti decreti ministeriali.

Dalla finestra di Davallada de ricciu, avevo intessuto la conoscenza di Ingrid Nygaard. Era lontana da me tre passi e mezzo nel vicolo piccolo e stretto. La guardavo di sbieco quando l’aria densa di questa primavera insolita si spegneva dentro i tombini annegati dall’acqua putrida dei frequenti acquazzoni di marzo. Solo i pochi cani accendevano l’udito nelle orecchie degli algheresi mentre raminghi trasportavano la vita randagia ticchettando le unghie dei loro passi tra i ciottoli incerti e bui.

Ingrid ha gli occhi blu. Banali per una danese come lei, perché quasi tutti i danesi hanno gli occhi blu. Ingrid si distingueva non per il colore bensì per il taglio degli occhi, le cui estremità esterne erano lievemente ripiegate verso il basso. Quelle pieghe della pelle, tipiche di una orientale, sembravano acuire l’intensità del cobalto dell’iride. Due pieghe incastonate nel viso buffo, lentigginoso, quasi adolescenziale, che celava benissimo le poche rughe dei suoi prossimi settant’anni. I capelli lunghi e brizzolati, raccolti a ciocche disordinate con una coda dietro la nuca la facevano apparire quasi trascurata e naïf ma ne esaltavano la bellezza intrepida e acerba, come le donne che non riescono a maturare col tempo che passa. Le guance rosate e la carnagione chiara ne slanciavano il sorriso sottile e i denti dallo smalto bianchissimo, stagliato dinanzi al naso squadrato e puntuto.

La osservavo lungamente quando, nel suo quotidiano rito post-prandiale, amava sorseggiare insieme con suo marito la tisana alle erbe amare, che lei stessa raccoglieva durante le passeggiate tra le campagne che guardano la costa di Tisvildeleje, dove risiede, prima di perdersi nell’orizzonte del Mare del Nord.

Sorrideva e beveva, soffermandosi a rubare tra un sorso e l’altro i pezzi di scogli che scorgeva dalla sua finestra affacciata ai Bastioni, in quella casa in affitto dove sceglieva di svernare. Evitava con raziocinio i lunghi e ispidi inverni danesi che i suoi dolori reumatici mal tolleravano. Erano circa quindici anni che sceglieva di arrivare ad Alghero e soggiornare nella stessa casa vacanze, che ad aprile lei e il marito liberavano per tornare tra gli amati fiordi.

Non l’avevo finora conosciuta. Mai ci fu occasione di presentazione, neppure le volte che la incrociavo al mercato a fare la spesa da sola, per lo più aggirandosi tra i banchi di frutta e verdura o a scegliere qualche pesce fresco da cucinare. Dal momento in cui era scoppiata la pandemia avevo imparato a scrutarla benissimo: il chiarore del suo incarnato, il suo zoppicante italiano misto alla gravità del suono della sua lingua madre, l’odore dolciastro delle tisane che arrivava fino alla mia finestra aperta rappresentavano l’unico sprazzo di evasione dalla mia reclusione forzata. Ogni sorso della sua bevanda era asciugato da lunghe disquisizioni che ne alternavano il timbro e la mimica davanti al coniuge ultrasettantenne seduto su una vecchia poltrona in similpelle beige, poggiata su un muro rivestito da una carta da parati a fiori che ne esaltavano la figura quasi regale, esaltandone la bellezza che un tempo gli apparteneva. Svend, suo marito, la ascoltava, entrambi si ascoltavano senza parlarsi mai uno sopra l’altra, discutevano, litigavano alzando leggermente il tono della voce, e due minuti dopo sembravano entrambi rappacificati col mondo.

Il suo nome lo avevo appreso sentendolo recitare costantemente dal marito come una dolce nenia, pronunciato con la erre ammosciata e arrotata dentro la gola. Avevo appreso la grammatica degli odori di quella casa, che si svelavano alle mie narici regalandomi pietanze a me olfattivamente incognite mentre contraccambiavo col mio abbecedario profumato di verdure grigliate.

«I’m sorry!» mi disse, apostrofando l’urto della sua busta della spesa con la mia. Un cavolo verza saltò fuori dalla mia sporta, prontamente lo raccolse per non farmi chinare.

«Si figuri, Ingrid, si figuri…». Cercai di scivolare fuori dall’imbarazzo inarcandole gli occhi con un sorriso. Seguì un momento di silenzio in cui mi fissò attentamente.

«Lei… conosce il mio nome?», mi guardò sorpresa.

«Sì. So chi è, già da molti anni.» La mascherina attutiva la voce di entrambe, tenute a debita distanza per evitare qualunque imprevisto tentativo di contatto.

Ingrid si sorprese. Si sentì scoperta, come se qualcuno avesse tolto il velo alla sua necessità di riservatezza.

«E lei come si chiama?»

«Valeria. Mi chiamo Valeria Solinas». Ero quasi tronfia e soddisfatta di essermi presentata a lei. Scambiammo due frasi, giusto il tempo di renderci conto che eravamo vicine di casa e che abitavamo nello stesso vicolo. Barattammo il contatto social, con la promessa di chiacchierare anche attraverso Skype. E in quel preciso istante me ne innamorai.

***

Ci ritrovammo a chiacchierare nei giorni seguenti, quando la musichetta squillante della videochiamata ci avvisava della possibilità di una nuova comunicazione tra noi due. Un sorriso che era un’attesa infinita spiegava il mio desiderio di contatto appena la vedevo. Una, due, spesso tre fino a quattro collegamenti al giorno dopo circa una settimana dal nostro primo incontro formale, per raccontarci il mondo, la vita scrutata di questi infiniti anni in cui mi ero limitata ad osservarla. Mi giunse così familiare che ridevamo per qualunque cosa, entrambe poco avvezze alla tecnologia e dissonanti con lo schermo del pc, cariche di iniziale disagio disciolto dalle consonanti pronunciate in maniera ispida dalla mia dirimpettaia.

La esploravo spostando lo sguardo per l’imbarazzo, spezzato verso parti a me familiari del mio salotto, dove il sottile disappunto poteva perdersi senza sentirmi inadeguata. Ogni tanto allungavo il viso fuori dallo schermo, al di là del suo campo visivo, appositamente come un capriccio: Ingrid rimaneva basita, con gli occhi cobalto spianati sugli angoli che di colpo si ingrandivano oltre le proprie orbite cacciate fuori nell’incredulità del mio inatteso comportamento, puntando il naso affilato. E io ridevo, ridevo di lei, ridevo del suo modo buffo di esplorarmi, di sforzarsi a comprendere il desiderio di giocosità che avevo reciso negli anni, spento dietro la mia carta da parati ammuffita dalla solitudine.

Finché, dopo una settimana a scambiarci ricette algheresi e danesi, mi chiese se ero sposata.

«Lo sono stata, Ingrid. Tanti anni fa…»

Tacqui di colpo, divenni seria. Mi guardò turbata, volevo diventare trasparente. Gli occhi azzurri mi trapanavano, chiedendomi di tirar fuori storie, racconti di questo amore. Dentro di me non c’era desiderio di rivelazione, solo macerie, frammenti aguzzi contro cui farsi male a parlare di cuore.

Continuai dopo un silenzio lunghissimo, dopo che con lo sguardo avevo cercato aiuto alla mia sdraio, alla mia chitarra scordata, al quadro di mia nonna, alla coperta di macramè sul letto, a tutti gli oggetti che circondavano la mia quotidiana armonia pur di disattendere quell’attesa. Mi sentii intrappolata, me ne accorsi da come lei mi guardava, quasi scusandosi. Il suo sguardo orientale trasformò gli occhi in cerbiatta, ne rimasi ammaliata, non volli fuggire dalla richiesta e fui spontanea quanto più possibile.

«Ho amato un uomo che non mi ha mai amata, col quale ho avuto un figlio. Entrambi sono morti. Circa tredici anni fa. Un incidente stradale…»

Ingrid si coprì il volto. Sentì la sua curiosità affondare come una vampa di vergogna, scrollando il capo.

«No, Ingrid, non si preoccupi. Non poteva sapere.»

Ancora silenzio. Continuai, volli togliere quel velo di tristezza, tentando di alleggerire la comunicazione.

«D’altronde, fui obbligata a sposare quell’uomo dalla mia famiglia. Non amavo quell’uomo, fu una scelta d’interesse dei miei genitori. La mia famiglia era poverissima, lui benestante, e divenni di colpo una donna agiata senza merito alcuno.»

Ancora silenzio. Deglutii, mentre lei non proferì parola.

«Amavo una donna, mia coetanea. L’amavo perdutamente, un amore impossibile nato tra i banchi di scuola, interrotto il giorno del suo fidanzamento. Non volli più vederla. Dopo quel giorno il mio cuore rimase spezzato, non c’era posto per altri che per lei, finché non partì lontana. Non l’ho mai più rivista…»

Silenzio e ancora silenzio scavava un solco tra Ingrid e me. Sentivo che il suo cuore mi ascoltava, potevo continuare, sillabando lentamente ogni parola che, anziché dividerci, ci stava unendo profondamente.

«I suoi occhi… I suoi occhi erano simili ai suoi, lo sa, Ingrid?»

Divenne paonazza. Adesso fu lei a non guardarmi. Sentivo di aver osato con la mia irruenza, scavalcato il velo di pudore che serbava. Compresi l’effetto che avrebbe fatto rischiare improvvisamente questo colpo basso infilatosi tra le pieghe della carne, sotto il suo costato.

Ingrid fece una smorfia, non si scompose. Stentò a guardare nuovamente il monitor, spinse il suo sguardo sollevandolo ancora e mi consegnò un sorriso.

Dopo quel giorno parlammo ancora e ancora ma senza fare riferimento al mio passato. Non era turbamento ciò che pensavo Ingrid avvertisse, bensì un profondo senso di pudore estatico, quasi non volesse spostare la sua curiosità verso lidi inusuali e immacolati dentro a ogni suo sospiro.

Passò un’altra settimana. Una fitta corrispondenza di messaggi e videochiamate, sorrisi e ricette mentre il mondo-Covid intorno a noi seppelliva i suoi morti a migliaia. Laddove prima si potevano scorgere in televisione immagini di campi infiniti e filari profumati adesso albergavano distese di bare tutte uguali, ciascuna improvvisamente comune e familiare a tante altre per anagrafica, storia, abitudini.

Improvvisamente, non la trovai più collegata. Spento il contatto, le sue finestre socchiuse, come se la vita si fosse disconnessa. Provai a lasciare messaggi sulla sua segreteria telefonica, anche WhatsApp risultava scollegato da due giorni.

Lasciai perdere la mia insistenza. Pensai di averla turbata abbastanza, considerai fosse stata colpa della mia imprudenza. Mi sentii sfacciatamente risoluta, condannando la mia veemenza e giustificando i miei comportamenti come segnali di profonda superficialità.

Trascorsero altri quattro giorni sedici ore e trentanove minuti. Praticamente, una settimana in tutto dall’ultimo contatto, e Ingrid riapparve su WhatsApp inviandomi un messaggio con una numerazione a me sconosciuta, +45, seguito da alcuni altri numeri. Pensai subito fosse lei, controllai scoprendo il prefisso internazionale danese. La spunta blu di WhatsApp si illuminò dopo la lettura dei miei vecchi messaggi. Riuscivo quasi a percepirne un cigolio sommesso come le mie membra stanche, quasi accartocciate dentro la generosità delle mie curve, che improvvisamente si ravvivarono di nuova linfa e rinnovato vigore.

Ingrid non volle videochiamarmi. Scrisse solo un messaggio striminzito, dicendomi che mi aveva già inviato una lettera che sarebbe giunta alla mia porta entro un paio di giorni, aveva preferito così.

Non rimasi sorpresa né mi meravigliò la modalità. Ero solo incuriosita ma non potevo rimanere più comoda nella mia posizione di attesa.

Mangiai chilometri nella mia casa vagando come una sonnambula. Aspettai che la lettera giungesse tra le mie mani. Quando il portalettere la lasciò nella mia cassetta, me ne appropriai con bramosia e la lessi d’un fiato.

Pochissime righe. Mi si riempirono gli occhi di lacrime. Mi commossi ad ogni riga.

Ingrid sarebbe giunta pochi giorni dopo. In tutta questa assenza c’era dolore. C’era la riapertura delle frontiere dopo il lockdown. C’era lei e c’ero io, ancora una volta. Fu un ritrovarsi ma non ci eravamo perse mai, non era mai stata lontana da me.

Non mi chiedeva compassione. Era pronta ad accogliere la mia presenza essenziale. Di questo mi scrisse, null’altro. Mi chiese espressamente di non andare a prenderla in aeroporto, ci saremmo viste direttamente nel nostro vicolo. Avrebbe continuato a bere tisane, a raccontarsi, a ridere ancora. Aveva necessità di prendersi cura di se stessa. A me chiedeva di condividerne il peso e la stanchezza, il sorriso e le parole smorzate. Di silenzio e tenerezza mi chiedeva di partecipare.

Arrivò in taxi una mattina presto di fine maggio. Il Covid-19 sembrava un ricordo tra le viuzze di Alghero, i ciottoli tornavano a rianimarsi calpestati da rumori più frequenti, i volti coperti da mascherine infrangevano l’ozio di quelle lunghe settimane. Il primo sole del mattino non era più fuggiasco dietro le nuvole nere e piovose dei mesi precedenti, tutto sembrò splendere, anche la vita che era rimasta dentro le case apparve rinnovata. Persino le sensazioni dentro le nostre viscere apparvero profondamente mutate, diversamente abili al rinnovamento che la quotidianità delle proprie semplici faccende richiedeva.

La vidi trascinarsi la grande valigia di pelle scura e sdrucita da viaggi avventurosi che appartenevano a una giovinezza che fu.

Salutò il tassista con un cenno della mano, senza parlare. Il rumore del taxi spezzò la quiete del vicolo, Ingrid si girò verso la mia finestra sollevando lo sguardo, sicura di incontrare il mio.

Era smunta, ancora più dimagrita, un abito di cotone leggero a fiori le stringeva delicatamente i fianchi, mentre un maglioncino color ecru e grandi occhiali da sole ne raccoglievano le spalle e gli spigoli degli occhi blu.

Salì frettolosamente a casa, attesi che riaprisse le imposte, che facesse arieggiare quegli ambienti a lei familiari, rimasti sfitti nei mesi estivi. L’abitazione era pronta a custodirla per l’estate, a proteggerla dalla violenza del caldo che sbatteva contro le sue finestre al mattino.

Attesi ancora circa tre quarti d’ora. Il mio contatto Skype scalpitava, la lucina verde garantiva il segnale on line in attesa di una sua chiamata. Così fu.

Si mostrò a me senza coperture, con lo sguardo nudo e stanco. Aveva accorciato i capelli, sembrò improvvisamente più vecchia ma la bellezza era inalterata.

«Ingrid…»

Non parlò. Lasciò che il solco della lacrima completasse il percorso sulla gota sinistra. Mi intenerì il cuore, avrei desiderato abbracciarla.

«Ingrid… mi spiace per Svend.»

Rimase immobile, le mie parole metalliche erano sospese nell’aria, le arrivarono dure, pungenti. Cominciò.

«Non ha sofferto. So solo questo, non ha sofferto.»

Ci fu silenzio carico di compassione. Poi continuò.

«Questa casa, tutto è iniziato qui. Era destino che tutto iniziasse tra queste stanze e qui mi riportasse.»

Il malore improvviso di Svend ad aprile, gli aiuti sanitari che in emergenza avevano tardato ad arrivare costrinsero Ingrid a contattare la loro assicurazione, che garantì un volo di rientro immediato verso la Danimarca, con collegamenti lunghissimi. Me lo descrisse come un eterno calvario, ogni parola un tonfo profondo come un chiodo che trapassa la carne sul legno. Tre settimane di coma, ictus irreversibile, morte cerebrale.

«Adesso sono qui.»

«Sì, Ingrid. Sei qui.»

«Come farò a prendermi cura di me?»

«Lo faremo insieme. Ti aiuterò io. So già come si fa.»

Si commosse. Piangemmo come due vecchie sole e abbandonate dal destino, perché questo eravamo consapevolmente diventate.

Abbiamo iniziato a fare lunghe camminate al mare la mattina presto, a respirare l’odore delle alghe, il profumo ha rigenerato i nostri volti sfioriti. Le tisane e i sorrisi hanno fatto il resto per restituire dignità alla presenza che l’una poteva concedere all’altra. Ci siamo prese per mano, abbiamo letto poesie, lavorato all’uncinetto, mi ha insegnato a preparare pietanze  contraccambiando con i manicaretti che avremmo consumato vicendevolmente.

Ci siamo incontrate nel silenzio. Tre passi e mezzo ci hanno separato. Quel silenzio ha ridotto il nostro spazio nonostante il Covid-19, le restrizioni, i decreti, la distanza sociale, le nostre finestre dirimpetto.

Abbiamo consegnato un nuovo codice alla nostra presenza, alle nostre scelte, alle nostre abitudini. Abbiamo ridefinito quei tre passi e mezzo, ormai troppo lunghi da sostenere per le nostre ossa e per le mani affaticate, spostandoci nella mia grande casa.

Lì abbiamo deciso di rimanere. Per sempre.

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fotografie di Antonio Pinna
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