Il Grande Vecchio di Burantì

di Emmanuele Farris*

In località Burantì-Padre Bellu, comune di Alghero, all’interno di una proprietà privata di Giuseppe Bardino, gestita con amorevole cura, siamo stati ammessi a conoscere un patriarca vegetale di notevole interesse culturale e scientifico sicuramente per il territorio di Alghero, ma probabilmente per l’intera Sardegna e, forse, il Mediterraneo.

Si tratta di un esemplare monumentale di Ginepro fenicio (oggi meglio definito come Ginepro turbinato, Juniperus turbinata Guss.) dalle dimensioni ragguardevoli, misurando a livello di petto d’uomo (cioè a circa 120 cm dal suolo) una circonferenza di oltre 3 metri (esattamente 305 cm) ed avente un’altezza di circa 6-7 metri. È un individuo femmina, che anche quest’anno sta producendo generosamente un’abbondante progenie (le cosiddette “bacche di ginepro” sono in realtà falsi frutti, in gergo botanico chiamati galbuli).

La chioma, molto ampia (circa 10 metri di diametro) è attivamente curata dai proprietari del terreno, che hanno realizzato una imbragatura in cavi di acciaio per evitare che i rami più pesanti cadessero al suolo e magari spaccassero anche il tronco principale, di aspetto monumentale ma cavo al suo interno, come spesso accade ad alberi di queste dimensioni.

Non è facile incontrare alberi di questa specie con queste dimensioni: nessuno dei ginepri fenici/turbinati censiti dal Prof. Ignazio Camarda nel suo magistrale libro su Alberi monumentali e foreste vetuste della Sardegna (Carlo Delfino Editore) raggiunge i 3 metri di circonferenza a 120 cm dal suolo.

Per quelle che sono le nostre conoscenze, si tratterebbe quindi del ginepro fenicio/turbinato più grande del territorio di Alghero e probabilmente della Sardegna.

I Ginepri (genere botanico Juniperus) appartengono alla famiglia delle Cupressaceae, con distribuzione prevalente Mediterraneo-Macaronesiana. Il Ginepro fenicio (oggi meglio definito come Ginepro turbinato, Juniperus turbinata Guss.) è una specie longeva e a crescita lenta, solitamente alto 1-6 m, a sessi separati (quindi esistono le piante di sesso maschile e le piante di sesso femminile). Le strutture riproduttive, definite strobili, vengono prodotte tra Febbraio e Marzo: l’impollinazione avviene per mezzo del vento; i coni hanno forma di pseudo-bacche, dette galbuli, e contengono 3-8 semi circondati da una polpa carnosa che raggiunge la maturità dopo 18-24 mesi, quando i galbuli vengono ingeriti da animali frugivori (uccelli ma anche mammiferi come la volpe) che disperdono i semi favorendo la diffusione della specie.

L’esame delle condizioni ambientali dell’area e delle foto aeree dei decenni passati ci permette di ipotizzare come un albero di queste dimensioni sia potuto arrivare fino a noi. La foto aerea del 1954 ci mostra già la presenza dell’albero in un contesto privo di copertura forestale e scarsa copertura arbustiva: la pianta si trovava al margine di un altopiano brullo e spoglio adibito prevalentemente ad attività pastorali. Riteniamo quindi che questo albero sia stato utilizzato per molti decenni (se non secoli) come sito di riposo per greggi e mandrie (e pastori) che pascolavano i brulli versanti degradanti sul mare. L’isolamento della pianta, ben evidente dall’esame della foto aerea del 1954, le ha probabilmente garantito di sopravvivere agli incendi e abbruciamenti che sicuramente non dovevano essere rari nel periodo di esercizio delle attività pastorali tradizionali.

Una volta intervenuto un drastico cambiamento d’uso, circa negli anni ’60 del secolo scorso, nella parte pianeggiante dell’altopiano si è intensificata l’attività agricola e successivamente quella insediativa-residenziale, mentre nelle aree più scoscese (versanti e impluvi) è stata interrotta l’attività pastorale, così da favorire lo sviluppo spontaneo della vegetazione naturale, che come si può osservare nel sito è costituita da una densa macchia-foresta sempreverde e termofila, in rapida evoluzione, dominata appunto dal Ginepro turbinato associato a Palma nana, Lentisco e Olivastro.

L’evoluzione del territorio sopra ipotizzata, comporta quindi che il nostro albero per lungo tempo sia stato l’unico testimone della primigenia copertura forestale dell’area, e quindi abbia assistito dapprima alle azioni antiche di disboscamento, incendio e pascolo brado, praticate fino a circa gli anni ’60-’70 del XX secolo, e successivamente, venendo inglobato in una proprietà privata, alla lenta ma costante ripresa della vegetazione naturale, che attualmente ricopre rigogliosa tutte le aree non coltivate.

Foto aeree da sardegnageoportale.it: confronto tra 2006 (a sinistra) e 1954 (a destra).

L’individuazione di questo albero monumentale, che certamente meriterebbe di essere iscritto nell’elenco degli alberi monumentali d’Italia, ci permette di esprimere alcune considerazioni.

In un contesto storico e geografico (il bacino Mediterraneo degli ultimi 50 anni) in cui il declino delle attività tradizionali di tipo agro-silvo-pastorale sta generando un complessivo aumento delle superfici forestali, soprattutto nella sponda nord del bacino, è necessario interrogarci su quali modelli forestali e di gestione del territorio in generale si intendano mettere in atto. Oggi abbiamo in generale un patrimonio forestale giovane e in certa misura caotico, in quanto si accresce rapidamente in aree oggi abbandonate o sottoutilizzate, ma che per decenni o secoli sono state coltivate e pascolate. Sono situazioni che vanno gestite anche in vista della prevenzione degli incendi estivi, che facilmente si sviluppano in contesti di macchia e macchia-foresta, così da costituire una minaccia anche per i pochi alberi monumentali pervenuti fino a noi, oltre che per gli insediamenti localizzati all’interfaccia tra aree forestali, agricole e abitate.

A questo scenario è fortemente legata la dinamica socio-economica, per cui in molte aree costiere del sud Europa, come la Sardegna, si assiste ad uno spopolamento delle zone interne e ad una espansione delle aree urbane costiere, talvolta con uno sprawl incontrollato nelle zone periurbane, come appunto avvenuto nelle corone olivetate di Alghero e Sassari.

Tutto ciò comporta che se da un lato stiamo perdendo paesaggi ad alto valore culturale, storico ed economico, come i paesaggi agro-silvo-pastorali mediterranei, dall’altro la rapida espansione delle aree urbane costiere ingloba spesso ambiti di notevole valore ambientale, sia singoli alberi come in questo caso, ma anche piccoli lembi di habitat che però in un contesto urbano assumono uno straordinario valore di memoria ed identità paesaggistica dei nostri territori: si pensi, relativamente ad Alghero, al boschetto residuo di Olmo comune all’incrocio tra Via Vittorio Emanuele e Via Antoine de Saint Exupery, o al bosco lineare di Pioppo bianco nella Via Giovanni XXIII tra le vie De Gasperi e Matteotti, per non parlare dell’intera Pineta di Maria Pia. Proprio in questi ambiti si rifugiano, in un contesto urbano e suburbano, una fauna e una flora di pregio, e talvolta degli alberi che possono avere caratteristiche di monumentalità, ma che non riconosciamo finché qualcuno non ce li fa conoscere.

Ecco quindi che l’individuazione in un contesto periurbano, all’interno di una proprietà privata, di un ginepro monumentale, deve motivare tutti, singoli cittadini e amministratori, alla riscoperta e riappropriazione del nostro territorio, partendo dall’ambito urbano a tutte le stradine di campagna che circondano la nostra città, fino alle aree definite più “naturali” a nord (area del Parco Regionale di Porto Conte) e a sud (area costiera da Calabona a La Speranza). E questo albero, per anni solitario testimone della vegetazione passata e oggi amorevolmente curato da una famiglia algherese, deve farci capire che tutte/i noi possiamo avere un ruolo attivo nella conservazione della biodiversità, perché ogni giovane albero che rispettiamo e valorizziamo oggi, potrà diventare un albero monumentale domani.

*Docente di Botanica presso l'Università degli studi di Sassari e Presidente della sezione sarda della Società Botanica Italiana.
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