John Carta, un mito del paracadutismo mondiale

Un mito del paracadutismo mondiale

di Nino Monti e Carmelo Murgia

E’ una fortuna che Vittoria Carta abbia voluto raccontare la straordinaria storia di un giovane algherese nel libro Mio fratello John Carta.

Una fortuna per chi ha conosciuto John che, grazie a questo racconto, ha potuto ricordare momenti di vita comune che si erano affievoliti nel tempo.

Una grande fortuna per chi non lo ha conosciuto perchè questo libro ha fatto conoscere la storia di un figlio di Alghero, bella e coinvolgente come le gesta epiche degli eroi mitologici.

Una storia, quella di John, che si intreccia con la realtà socio-economica di Alghero e della sua famiglia nell’immediato dopo guerra. Per i bambini erano i tempi dei giochi semplici, dei pochi giocatoli allora disponibili ma sufficienti per creare gioia e divertimento. Erano tempi duri per gli adulti, sempre in lotta con una vita grama, spesso segnata anche da un destino avverso.

E’ in questa realtà che nel 1946 nasce il piccolo Giovanni (John), sei mesi dopo la morte del padre Giovanni Michele tragicamente scomparso all’età di 32 anni per malattia.

Vittoria e John con la madre Maria Simona Palitta

Un’infanzia non facile, superata grazie alla solidarietà della famiglia e all’amore della sorella Vittoria, di due anni più grande, vissuta a Baratz, contrada vicino ad Alghero, dove la famiglia si era trasferita. La mamma, rimasta vedova a 20 anni, si era risposata con Mario, raccoglitore di palme nane che vendeva alle fabbriche di crine vegetale utilizzato per l’imbottitura di materassi, divani e la costruzione di cordame. Decisamente altri tempi.

E’ in questo periodo che Giovanni, bimbo di 4 anni, manifesta i primi sintomi di quelli che sarebbero stati gli interessi e le attitudini che lo avrebbero coinvolto nel corso della sua vita.

Nella campagna di Baratz c’era il relitto di un aereo militare precipitato durante la guerra che era diventato il nuovo “giocattolo” di Giovanni. Il posto di guida era il suo preferito, nessuno lo poteva e doveva occupare. L’ebbrezza del volo in aereo, un sogno che si sarebbe avverato qualche anno dopo lontano da Alghero, in una terra che sarebbe diventata anche la sua nuova patria.

Naturalmente anche nel periodo di Baratz non mancavano lunghe presenze in Alghero presso nonna Giovanna Maria nella casa in pieno centro storico dove peraltro Giovanni era nato. Una presenza che divenne permanente quando la famiglia decise di abbandonare Baratz e stabilirsi in Alghero. Con l’eccezione della sorella Vittoria che fu affidata ai nonni paterni di Sassari.

Siamo ai primi anni ‘50, Giovanni inizia a manifestare un carattere vivace, gioca con gli amici del rione (l’allora famosi ragazzi della muraglia), risulta poco diligente con l’impegno scolastico. Un pochino discolo si direbbe allora. Naturalmente compensato con un congruo numero di botte che la mamma gli riservava… quando riusciva ad acchiapparlo.

Giovanni era anche un ragazzo molto forte : racconta un suo caro amico d’infanzia, Pietro Ledda, noto “Barabba”, oggi un autentico artista popolare,  “ Giovanni aveva un fisico d’atleta, prima di partire per l’America spesso ci stupiva compiendo il tragitto Torre dei cani-Torre di Sulis aiutandosi con le sole mani, posizionando il corpo con una perfetta verticale,  ho pianto quando ci ha lasciati”.

Ma la muraglia non era solo il teatro delle scaramucce tra le “ bande” di ragazzini dei vari quartieri di Alghero, ma anche il giusto punto di osservazione dei piccoli aerei della scuola di volo dell’aeroporto militare che volteggiavano nel mare antistante i bastioni.

Uno spettacolo affascinante che, unito ai ricordi del relitto di Baratz, stimolarono di molto i sogni del piccolo Giovanni, quasi premonitori di quello che che sarebbe stato il suo mondo in età adulta.

Una nuova vita iniziata grazie alla zia Niny, figlia del nonno paterno Giuseppe, che avendo sposato un ufficiale americano (erano chiamate le spose di guerra) si era trasferita in America. Niny, superate le normali difficoltà dei primi anni, aveva aperto uno studio notarile e conduceva una vita piuttosto agiata.

Anche la zia Lina si era trasferita in seguito in America avendo sposato un italo-americano. Entrambe mantennero continui rapporti epistolari con i familiari algheresi e non mancarono di spedire anche pacchi che contenevano, come scrive Vittoria Carta nel libro sul fratello, varie cose tra cui anche dei vestiti per lei.

Per Giovanni, allora undicenne, il destino aveva riservato una novità che gli avrebbe stravolto rapidamente la vita.

La zia Niny, nel frattempo divorziata e senza figli, scrisse ai nonni manifestando la volontà di adottare Giovanni. Un colpo di scena che provocò varie reazioni, con la mamma favorevole perché aveva capito subito l’opportunità che si stava aprendo per il figlio, al contrario della nonna materna che era molto affezionata a lui.

Alla fine la ragione prevalse sui sentimenti e fu avviata la pratica per l’espatrio.

La sorella Vittoria, in una recente presentazione del suo libro Mio fratello John Carta nella libreria Cyrano di Alghero, ancora commossa, così racconta quell’episodio:

ricordo ancora il giorno della sua partenza…….aveva undici anni, ricordo un bambino avvolto dal suo cappotto marrone e una valigia con pochi capi di abbigliamento, qualche regalo per le zie, ma soprattutto alcuni ritagli di giornale che parlavano delle vittorie del pugile algherese Tore Burruni che, dopo qualche anno, sarebbe diventato campione mondiale dei pesi mosca. Con quei ritagli portava con se in America un pezzo della sua Alghero: l’orgoglio della sua città.

All’aeroporto di Alghero vennero a salutarlo anche la mamma e la nonna……erano tutti commossi. Lui cercò di fare il duro e non pianse, ma aveva uno sguardo triste, quasi nel vuoto.

Una hostess lo prese in consegna per il volo Alghero-Roma per poi consegnarlo a un’altra collega per la tratta Roma-New York. Sento ancora il grande nodo alla gola che mi si formò nel momento in cui mio fratello, quasi alla fine della scaletta, si voltò per salutarci l’ultima volta prima di partire.

Iniziava l’avventura di Giovanni-John in America.

John a undici anni nella foto del passaporto

I primi anni di vita negli States non furono facili, si trattava di imparare una nuova lingua e abituarsi ai costumi di un paese totalmente diverso dall’Italia. Difficoltà comunque attutite dal fatto di poter vivere con la zia Niny, notaio, che gli garantiva comunque di vivere in una famiglia senza problemi economici.

In quel periodo iniziarono a emergere i contorni della personalità di John che si stava formando e manifestando. Dimostrò subito una grande attitudine per lo sport diventando un ottimo pattinatore sul ghiaccio, assieme a una sensibilità umana molto forte.

Una sua iniziativa ebbe anche ampio risalto nella stampa locale quando decise di devolvere i suoi risparmi a una fondazione per lotta contro la poliomielite

John Carta bambino che firma l’assegno

Una situazione positiva che purtroppo non durò a lungo. Quando John aveva quindici anni, la zia Niny, a soli quarant’anni, morì per una grave malattia. Una tragedia nella tragedia perché non essendo stata ancora perfezionata la pratica d’adozione, John si trovò praticamente da solo in quanto lo zio acquisito non si assunse la responsabilità di tenerlo con se.

Dopo un breve periodo con lo zio Tore e zia Mimma che da tempo vivevano in America, John non si perse d’animo e decise di andare a vivere da solo. Una condizione questa abbastanza comune negli Stati Uniti dove i giovani tendevano a diventare indipendenti presto.

Continuò a frequentare la scuola mantenendosi da solo, facendo ogni tipo di lavoro, anche faticosi come quello di spalare la neve davanti alle case.

In quegli anni John potè contare anche sull’aiuto del sassarese Gigi Cossu, a sua volta aiutato dalla zia Niny per le pratiche di immigrazione. Gigi, dopo aver girovagato nel mondo come cuoco nelle navi mercantili, aveva aperto un ristorante a New York dove John prestava occasionalmente il suo aiuto.

Nel 1966, a vent’anni, John decise di dare una sterzata alla sua vita. Si arruolò nell’esercito degli Stati Uniti aiutato certamente dalla voglia di avere nuove esperienze e di esplorare nuovi orizzonti.

Le destinazioni previste per il soldato Carta erano la Germania o il Vietnam. Saputo della possibilità di prestare servizio in Germania, l’amata sorella Vittoria, che nel frattempo si era trasferita a Copenaghen per lavoro, scrisse addirittura al comandante militare di Fort Benning affinché prevalesse la destinazione tedesca. Una soluzione, spiegò Vittoria Carta nella lettera che, data la vicinanza tra Danimarca e Germania, le avrebbe facilitato la possibilità di riabbracciare il fratello dopo molti anni.

Purtroppo le cose non andarono nel verso giusto. In una cortese lettera del capitano Allan R. Borrougs le venne spiegato che nel frattempo erano arrivate nuove disposizioni: la sua destinazione sarebbe stata il Vietnam.

John fu assegnato alle special forces aviotrasportate come paramedico.

John Carta secondo a sinistra, con alcuni commilitoni in Vietnam

Su quella decisione la sorella Vittoria riporta nel suo libro la testimonianza dell’amico J.D.Walker “ John non credeva di servire il proprio paese uccidendo i propri simili, preferì invece salvare vite”.

Un compito difficilissimo e pericolosissimo quello di John; si trattava di recuperare morti e feriti in zone di combattimento dove l’avvicinamento e l’atterraggio con l’elicottero era il momento preferito per un attacco da parte del nemico. Di quel mezzo di trasporto aereo, il più utilizzato in quella terribile guerra, ne furono distrutti diverse migliaia e anche a John andò vicinissimo alla morte quando il suo elicottero fu abbattuto. Morirono tutti i membri dell’equipaggio, si salvò miracolosamente solo lui.

John che intratteneva un rapporto epistolare con la sorella Vittoria non fece mai cenno dell’accaduto, non voleva preoccupare i suoi familiari.

Solo dopo la sua morte Vittoria seppe che era stato decorato per un gesto eroico accaduto durante un combattimento, dove gli americani avevano avuto la peggio. John anziché scappare come i suoi compagni, rimase vicino al suo comandante morente per assisterlo sino alla fine, rischiando egli stesso la vita.

The army commendation medal

A John, come si è capito, non piaceva parlare della guerra. La sorella Vittoria racconta di quando durante una sua permanenza ad Alghero, il giorno di ferragosto, andarono a vedere i tradizionali fuochi d’artificio. La sorella si accorse dell’improvvisa tristezza che aveva colto nel volto di John: gli chiese “non ti piacciono i fuochi ?”, no, rispose il fratello, “mi ha ricordato il Vietnam”.

Uno dei rari momenti nei quali aveva dimostrato sentimenti diversi da solito carattere sempre portato al gioco e allo scherzo.

Dopo aver servito il paese (1967-1969), rientrato sano e salvo dal Vietnam, come tutti i reduci di guerra, affrontò le solite difficoltà di reinserimento nella società civile, ma John non si perse d’animo, fece molti lavori: il carpentiere, il cameriere,il tassista.

Gli piacevano le moto e praticava il motocross. Partecipò anche a molte corse vincendone diverse. Aveva anche una Harley Davidson di cui era molto orgoglioso.

Vittoria, rientrata con la famiglia in Alghero dalla Danimarca, racconta il commovente ritorno di John nella città natale nel febbraio 1972. Erano passati 16 anni dalla sua partenza in America. John era diventato un giovane di 28 anni, alto e robusto che si era presentato, senza preavviso, alla porta di casa con l’immancabile sorriso. Potete immaginare la gioia della sorella, dei nipotini Patrizia,Gian Mario, Stefano e Ingrid appena conosciuti. Seguirono nei giorni successivi le visite ai parenti di Alghero e di Sindia, paese natale del padre.

Furono giorni felici passati in particolare in compagnia dei nipotini con i quali giocava spesso e che si affezionarono subito allo zio americano.

In quei giorni non mancò di apprezzare nuovamente i sapori della cucina sarda e soprattutto dei ricci di Calabona che egli stesso raccolse insieme alla sorella Vittoria.

Negli anni settanta e ottanta John, ritornato a New York, pilotava piccoli aerei per portare i turisti ad ammirare la città dall’alto, anche se preferiva pilotare gli elicotteri che, a suo dire, erano più difficili da guidare. Ma proprio in quegli anni scoppiò in John una fortissima passione per il paracadutismo.

Iniziò a lanciarsi in posti sempre più difficili e spettacolari (edifici, torri, fari abbandonati e ponti), una disciplina sportiva conosciuta base Jumping.

L’impresa che lo fece conoscere al mondo fu l’incredibile atterraggio nel 1981 su una delle torri del World Trade Center, le tristemente note Torri gemelle di New York. Una spericolata impresa lanciandosi da quattromila metri da un aereo con il paracadute. Seguirono molti altri lanci, tra i quali, sempre da un aereo, sopra un pilone del ponte Giovanni da Verrazzano, sempre a New York, e concludendo l’impresa lanciandosi in mare con il paracadute di riserva. Tutti lanci che vennero seguiti da molti giornali e TV nel mondo

Logo disegnato da John Carta
Atterraggio su una delle torri gemelle

Qualcuno potrebbe giudicarlo solo come un giovane spericolato amante del brivido: niente di tutto questo, John era un pragmatico perfezionista. Preparava i lanci in maniera molto meticolosa a tavolino, studiando l’area di lancio, i venti, la velocità di caduta e apportando continui miglioramenti al paracadute.

Trasferitosi in California dove il paracadutismo è molto popolare, si lancia dalla cima della parete alta mille metri della cascata del parco nazionale di Yosemite. Un lancio pieno di insidie che gli procurarono anche qualche botto con la roccia. Un problema che John risolse in seguito studiando nuove tecniche per allontanarsi dalla parete rocciosa.

El Capitain Yosemite (California)

Progettò infatti una tuta alare di stoffa che perfezionò successivamente inserendo con le penne delle ali in plexiglass. Con questo accorgimento, come raccontò Ken Reed, noto documentarista, John riuscì, nei successivi lanci nelle Yosemite Falss, a staccarsi di una cinquantina di metri dalla parete.

Vittoria Carta riporta nel libro le telefonate col fratello, il racconto entusiasta dei suoi lanci creando però non poca angoscia alla sorella che veniva puntualmente rassicurata da John che non mancava di ricordarle i cinquemila lanci effettuati senza problemi.

John aveva molti amici paracadutisti anche in Italia con i quali aveva fatto anche numerosi lanci in varie parti della penisola. Memorabile rimane il lancio dalla torre di Pisa del 1988, mai tentato prima per la scarsa altezza (56 m.). John studiò il problema che risolse con la costruzione di un paracadute che si apriva quasi all’istante che gli consentì di planare in sicurezza. Un’impresa incredibile che il quotidiano La Repubblica documentò anche con numerose fotografie.

Lancio dalla torre di Pisa

Alla ricerca di nuove emozioni John si misurò con altre imprese spettacolari e originali come il lancio con la sua motocicletta da un ponte sul Grand Canyon in Arizona alto 250 metri, ripetuta in seguito in un film.

Lancio con la motocicletta

Per non farsi mancare niente partecipava anche, come stunt, a diverse manifestazioni aeree stando in piedi sulle ali dei velivoli per poi lanciarsi nel vuoto.

Ma l’orgoglio di John era la sua tuta alare che solo anni dopo, ispirandosi proprio a questa, il famoso paracadutista francese Patrick De Gayardon, la perfezionò realizzando la moderna tuta alare.

La fama di John cresceva sempre di più e ad assistere ai suoi spettacolari lanci da aerei, elicotteri ed edifici in varie parti d’America, partecipava una moltitudine di persone sempre più numerosa.

Il 29 settembre 1990 si concluse tragicamente la sua vita. Una vita caratterizzata anche da momenti molto difficili. Rimasto orfano di padre, mancato qualche mese prima della sua nascita, la partenza per l’America a 11 anni, la morte prematura della zia Niny prima che potesse ultimare le pratiche di adozione, l’esperienza drammatica nella guerra del Vietnam. Una vita pienamente vissuta ma anche piena di sofferenze superate da John senza piangersi addosso e con la stessa determinazione e coraggio che dimostrerà nelle sue attività sportive. Una vita però illuminata da grandi imprese sportive che lo hanno reso un mito del paracadutismo.

Quel sabato di settembre un destino crudele lo colpì con l’invito di un amico che chiedeva la sua presenza in una manifestazione-show con un aereo della seconda guerra mondiale restaurato. John era indeciso se accettare l’invito perché era convalescente da una brutta frattura che si era procurato durante un lancio a causa di alcuni tiranti che si erano imbrogliati: una cosa mai successo prima. .L’insistenza degli amici e la decisione di John di non deluderli gli fece fare il passo fatale.

L’aereo precipitò forse per un guasto ai motori o per un malore del pilota, questo non fu mai chiarito. Morirono in sette, il corpo di John fu recuperato due giorni dopo in un vicino lago. Gli incredibili giochi del destino, l’aereo caduto ero dello stesso tipo del relitto di Baratz col quale il piccolo John inseguiva i suoi sogni infantili.

Alla presenza dei nipoti Gian Mario e Ingrid si tennero, in California, i funerali di stato dovuti agli eroi di guerra del Vietnam. Il corpo fu cremato assieme a una rosa rossa che l’amata sorella Vittoria aveva consegnato ai figli.

Rispettando un’usanza dei paracadutisti americani le sue ceneri furono disperse dai suoi amici che si lanciarono in uno spettacolare lancio formando una stella nel parco nazionale di Yosemite. Era l’ultimo volo di John al quale partecipò anche la nipote Ingrid che aveva ereditato dallo zio la passione del paracadutismo.

L’urna funeraria, avvolta dalla bandiera americana, portata dai suoi nipoti, oggi si trova nel cimitero di Alghero.


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John Carta

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