L’ultima sera con Elvira

L’ultima sera con Elvira©

Capitolo 3

di Valeria Solinas

Bambini e animali dispongono di un minimo comune multiplo. Possiedono entrambi la magia dell’istinto. Sono senza filtri, non conoscono le mezze misure, amano o odiano incondizionatamente, con tutte le proprie forze. Quando un bambino ti abbraccia, un cane ti lecca o, in preda alla paura, ti morde il polpaccio, lo fa con tutta l’energia che ha in corpo. Non ha il dovere di pensare, di far fluire la sua azione attraverso l’onda della ragione. Lo fa e basta, non si chiede il perché, rientra tra le sue possibilità. Lo fa perché lo sente nel corpo, ogni sua cellula vibra e si sintonizza affinché la sua esplosione sia massima, la vigoria che gli appartiene è già dentro di se. Non chiede permesso a nessuno, lascia sul terreno morti e feriti, non si cura delle estreme conseguenze di ogni suo gesto. È solo pancia che comanda l’azione.

È ciò che avverto quando Kira mi scodinzola per leccarmi, o quando le mie ginocchia si bloccano ripensando alla stretta improvvisa di Lorenzo, mio figlio, che, quando era bambino, mi stringeva forte senza permettermi di camminare. Gli tastavo la fronte e i capelli, teneva gli occhi strizzati, percepivo le sue sensazioni amplificate.

Ingrid si diverte appena si accorge che Kira lecca la mia fronte. Mi dice che lei manifesta così il suo affetto, non sa farlo diversamente. «Già», penso, «è l’unico modo che conosce e che mi piace.»

Mi allunga la mano infilandola sotto la coperta ripiegata sulle mie gambe, la appoggia sotto l’attaccatura della zampa anteriore di Kira, che si distrae e inizia a leccare anche la sua mano. Il mio mondo è qui, condensato tra i pochi centimetri della mia coperta creata all’uncinetto da mia nonna, a scaldarmi le gambe e l’anima. Ricambio il gesto a Ingrid, afferro la sua mano, la bacio delicatamente. Tolgo la momentanea distrazione a Kira, la cagnetta si sente tradita e mi guarda come una ladra. Ingrid ed io iniziamo a ridere per questi siparietti inattesi da vecchie dame dell’ottocento, ci sentiamo come dentro un quadro di Renoir.

Mi assale una improvvisa nostalgia, il mio sguardo di colpo s’incupisce.

«Che succede?», mi chiede Ingrid con tono bassissimo.

«Hmm.» Scuoto la testa piano, solo una smorfia si sfila dal mio viso, lei se ne accorge e l’afferra.

«Cosa c’è, Valeria? Hai mutato espressione all’improvviso…»

È vero, non posso mentirle. La sua domanda mi arriva come una fitta al costato.

«Il bacio sulla mano, Ingrid. Mi ha ricordato cose antiche. Prima che con te l’ho fatto solo una volta, tanti anni fa.»

Ingrid molla la presa. Non so se rappresenta un comportamento stizzoso di gelosia o solo il desiderio implicito di vedermi rinfrancata da un gesto che mi turba. Lascia andare un sospiro, irrigidisce la schiena sulla sua poltrona, in posizione di assoluto ascolto.

«Elvira, il mio amore del liceo. Ho ripensato a lei. E tu sei un’ottima osservatrice, Ingrid.»

Mi sorride. Sembra rilassarsi, la minaccia non è una mina vagante, si tratta di un pericolo lontano, sotterrato in un tempo immemore. Nessuna deflagrazione può avere a che fare con lei e con me adesso. Inizio a raccontarle, non attende altro che sentirsi rassicurata dalle mie parole, mi pare doveroso non permettere a sofferenza alcuna di insinuarsi tra le nostre vite stropicciate.

Mi sollevo dalla mia poltrona, le ossa mi si scompigliano. In realtà non sono le ossa, i sussulti del cuore fanno apparire il mio corpo in preda a un sisma, un movimento tellurico improvviso che traccia un terremoto in atto. Ingrid mi guarda, rimane apparentemente serena, sa che questa roba che vuole uscire non ha nulla a che vedere con lei ma la teme, ne ha profondo rispetto.

«Elvira era la mia perfetta metà della mela. Il mio alter ego, l’altra parte di un’anima divisa in due. Non saprei definirla diversamente.»

Anche Kira mi ascolta, adagiata sulla poltrona. Ogni tanto allunga lo sguardo verso il carrellino che le ho sganciato, sembra voglia scendere giù sul pavimento e stare ai piedi di Ingrid o inseguirmi mentre mi sforzo di rimanere eretta per camminare dentro la stanza.

«Era la cosa più grande che avevo. Il mio assoluto. Più della mia famiglia, più di ogni altra cosa al mondo. Non sapevo che sarebbe diventata anche la mia disperazione, la vertigine del mio abisso.»

Ingrid fa una smorfia sottile, si perde tra le labbra strette.

«Anche il suo nome era perfetto per il nostro amore: Elvira. E-L-V-I-R-A, le sue lettere anagrammate stanno interamente dentro il mio nome. E noi stavamo davvero così, come due matrioske intercambiabili, una dentro l’altra.»

«Risuonavamo allo stesso modo, sin dai banchi di scuola. Bionda rossastra, Elvira, con gli occhi scuri che mi facevano impazzire tutte le volte che mi guardava. Era poco più alta di me, il seno già sviluppato e sodo in cui mi perdevo guardandole i bottoncini della camicia che tiravano, e due capezzoli piccoli e turgidi che mi puntavano fissa non appena gli occhi si incontravano.

A tredici anni non sai se ciò che ti sta accadendo sia terremoto, quel terremoto, oppure semplicemente la tuo bozzolo che a un certo punto decide di spaccarsi. Davo la colpa a tutto, agli ormoni, all’educazione cattocomunista della mia famiglia, al perbenismo imperante. La liberazione sessuale, il femminismo e tutte le lotte di rivendicazione erano ancora acerbi, lontani da me, lontani da Elvira, sopiti sotto il nostro banco di legno dove ci scambiavamo messaggi senza mai sfiorarci.»

Ingrid sembra acquietarsi, poggia la schiena sulla poltrona. Kira le rimane in grembo, sembra anch’essa assorta nella narrazione, entrambe incantate dentro il racconto di una furia adolescenziale che altro non era che un semplice movimento dell’anima, un sussulto poco più sconquassante di un sibilo interiore.

«Cinque anni. Cinque anni in cui eravamo esclusive: lei ed io, io e lei. Tutto il mondo intorno ci faceva da cornice, amici e parenti cozzavano contro il nostro solido legame, l’acciaio inossidabile della nostra frequentazione era un fortino impossibile da espugnare. Il frutto di un desiderio imperscrutabile e nascosto, delicatamente privato, una polpa che non era permesso gustare. Finché non mi rivelò i progetti della sua famiglia su di lei».

Un fremito mi avvolge, la voce comincia a tremolarmi. Il ricordo mi trascina in un vortice che non voglio mi possieda, tento di mantenermi lucida camminando avanti e indietro per la stanza. Bevo un bicchiere d’acqua, un’arsura intrepida mi avvampa.

«Essere promessa in sposa è la cosa più tremenda che potrebbe accadere quando ti viene rivelata come un fulmine a ciel sereno, perché così fu per me. Elvira me lo rivelò il giorno prima che la mia famiglia me lo anticipasse, in paese tutti lo sapevano già. Entrambe legate da un insolito destino che sarebbe diventato la funesta conclusione del periodo più bello ed entusiasmante della mia vita, non lo saprò mai. Sarebbe partita alla fine dell’estate, avrebbe studiato a Parma, avrebbe frequentato l’Università, si sarebbe sposata, avrebbe avuto dei figli. Tutto già pianificato, già deciso. La nostra scelta non valeva niente, solo il miserevole ricordo di una cottarella tra ragazze che non si erano mai scambiate un bacio, si erano dichiarate amore senza parlarsi mai, si erano raccontate sentimenti svelandoseli con gli occhi, si erano avviluppate in un groviglio che ci avrebbe stremate e annichilite per sempre.»

Taccio per qualche secondo. Una lacrima, solo una, rimane aggrappata nel ginepraio di emozioni che adesso mi assale. Mi faccio forza, non ho intenzione di piangere. Respiro.

«Ricordo ancora quell’ultima sera d’estate, facemmo il bagno al mare prima di salutarci. Non ci fu spazio per le parole. Era l’ultima volta che ci saremmo guardate negli occhi. Pensai fosse il momento di dirsi tutto, quando, armata del coraggio che potevo chiedere al cielo e alle stelle, la guardai rivelandole il mio amore eterno. Elvira pianse, non parlò. Mi abbracciò intensamente, lasciammo che le nostre membra forti si aggrappassero le une alle altre per non sentire più il tremore di quel fremito potente come una fitta. Le afferrai la mano, come ho fatto prima con te. Pianse. Fu la cosa più delicata che potevamo conservare nel cuore senza occupare troppo spazio nei ricordi. Ci stampammo un bacio, bevemmo sale e lacrime, e fu bello così, sembrò un incanto che non smette mai di meravigliarti.»

«Non la rividi più. Non sapevo che la stessa scelta la mia famiglia l’aveva riservata a me: studiare, sposare un uomo a cui mi aveva promessa a mia insaputa, e mi sentii morire per sempre. In questi casi, la sofferenza è come il braccio armato di un minatore, ti scava tra le viscere, affonda a picconate e lascia macerie, e preghi ogni giorno che arrivi il colpo inferto più duramente per mettere fine alla miseria delle rovine che tenevo dentro. Non potevo fare altro che stare con questo sfacelo, addentare i brandelli di forza che mi rimanevano, affogare nello studio e provare a dimenticare. E sentivo che ogni giorno quel minatore esperto ne portava via un pezzetto per volta, detriti che non possono avere più posto, pietra arenaria che invadeva le viscere quando cercavo solo salvezza, perché la cosa migliore che puoi fare è decidere di sopravvivere.

E così feci.»

Osservo finalmente Ingrid. Non l’ho guardata per tutto il tempo, non so che effetto mi avrebbe fatto. Poi, bruscamente interrompo questo pietoso racconto, doloroso per me da tirare fuori dinanzi alla donna che con me condivide questa casa, della quale ho profondo rispetto e amorevolezza.

«Anche tu te ne andrai, Ingrid?»

Il tono di voce appare duro anche a me. Ingrid non lo merita ma è l’unico modo per dire ciò che sento adesso. Mi guarda con tenerezza, non si lascia avviluppare dalle spire dei miei ricordi, non cade nel tranello che la memoria le ha teso.

Sorride delicatamente, anche se lo sguardo che mi volge è severo.

«No, Valeria. Non andrò via. Sono qui. La vita ci regalerà ancora momenti di prezioso incanto.»

Basta ad acquietarmi. Basta a riprendere il mio respiro usuale, mi avvicino e le accarezzo la guancia. Le bacio nuovamente la mano, a noi donne un po’ retrò, dall’animo ottocentesco ci piace essere coccolate e vezzeggiate. Mi arriva quella tenerezza, si insinua sotto la pelle, nella mia rinnovata consapevolezza di donna matura e nuovamente amata.

Kira lecca la mia guancia mentre bacio ripetutamente la mano di Ingrid.

«Non aggiungere altro. Mi basta, Ingrid.»

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