La “bruixa” Maria Cosseddu

Un processo per superstizione e sortilegi nell’Alghero del 1735.

di Alessandra Derriu

La nostra storia è ambientata nell’Alghero del XVIII, racchiusa nel centro storico, delimitata dal porto, dalle campagne, da qui si arriva e si riparte oltrepassando le porte della città. Le persone si muovono nei vicoli, tra chiese e palazzi, dove la gente vive, si ferma a chiacchierare alle finestre, la notte gli uomini si rifugiano nelle taverne a cercare sollievo dopo una dura giornata di lavoro. In questi luoghi la popolazione si osserva, si ascolta, e si racconta. È come se fossero ancora li quegli uomini e quelle donne, in qualche angolo dell’Alguer vella, all’incrocio dei vicoli, che parlottano per le strade, e si scambiano notizie ed informazioni.

Di giorno c’è molto rumore, un brulicare di voci nel via vai generale, si sentono le grida degli ambulanti, le campane, gli zoccoli dei cavalli, le risate dei bambini che giocano davanti alle case mentre le donne stendono i panni al sole, ed i pescatori avvolgono le reti. La vita è scandita dalle attività lavorative: la pesca e i commerci nel porto e poi l’agricoltura e la pastorizia. Una presenza sicuramente importante è quella della comunità dei soldati, molto numerosi in città, da qui partono per le spedizioni nell’entroterra e quelli che restano sono impegnati nelle continue ronde sui bastioni, nel cambio della guardia, nei rifornimenti.

Streghe attorno al calderone

Maria Cosseddu era una popolana, vissuta in città e processata dal Tribunale dell’Inquisizione Vescovile, nel 1735, per sortilegi e rimedi superstiziosi utilizzati per curare le malattie. La sua attività di guaritrice, accompagnata da formule, riti e materiali desunti dalla religione cattolica, spesso trafugati da chiese e cimiteri, era inaccettabile per le autorità ecclesiastiche, condannata come superstiziosa, ritenuta pericolosa poiché contraria alla religione e di conseguenza da perseguire. Sicuramente i rimedi di Maria implicavano un rapporto del singolo individuo con il sacro che non era approvato dalla Chiesa e rappresentava un pericolo di peccato e di eresia, inducendo alla sopravvivenza di pratiche superstiziose antiche che invece si cercava di debellare. Maria era una donna che si poneva da intermediario tra l’uomo e la divinità esautorando la Chiesa di ogni potere e controllo sul suo operato che rischiava di essere, oltre che in contrasto con la dottrina ufficiale, fonte di inganni e di imbrogli.

Incipit dell’interrogatorio di Maria Cosseddu (Archivio Storico Diocesano Alghero)
Firma con croce di Maria Cosseddu (Archivio Storico Diocesano Alghero)

La Cosseddu pronunciava delle formule-orazioni sottovoce: questo comportamento era funzionale al rito poiché il tono e l’incomprensibilità delle parole rafforzava la sensazione dell’intervento di forze misteriose, e quindi il potere della guaritrice. Tra vari “ingredienti” utilizzava il cuore, simbolo di vitalità, di un animale nero, colore che evocava il mondo dei morti e i poteri ad esso connessi. Da alcune pratiche si evince il rapporto disinvolto dell’imputata con l’aldilà e con i morti, consuetudine antichissima che veniva tenuta sotto stretto controllo dalla Chiesa.

I defunti più ricercati per comporre rimedi e medicamenti erano quelli di morte violenta, che si immaginavano intrappolati a lungo nell’antinferno per le pendenze invase con la vita e desiderosi di vendetta: spesso utilizzati per riti di magia nera, si pensava permettessero un contatto con l’aldilà e con i poteri scaturiti dal mondo dei morti. La pratica di utilizzare ossa provenienti dai cadaveri è attestata fin dall’antichità, presente anche nella medicina popolare del Medioevo e dell’Età Moderna.

Francisco Goya, Il sabba delle streghe, 1797-1798

La credenza era che il simile producesse il simile o lo allontanasse e così le ossa di morto, simbolicamente, si impadronivano della malattia e la distruggevano. Di queste antiche pratiche in uso in passato anche nella città di Alghero, alcune sono arrivate fino ai giorni nostri, come le preghiere contro il malocchio, di altre, come l’uso delle ossa dei morti, ne abbiamo conservato memoria. L’imputata non fa mai accenno alla presenza o alla componente maligna nelle sue pratiche, non nomina e non invoca mai il demonio. Maria dichiara che tutti i rimedi da lei utilizzati non hanno alcun valore di per sé ma che traggono la loro forza dall’invocazione dei Santi e della Vergine; i suoi gesti sono accompagnati da orazioni e preghiere e i suoi medicamenti preceduti da un segno di Croce: sembra convinta di agire nel bene con metodi che seppur non consueti restano all’interno di dinamiche e espressioni religiose riconosciute da tutti.

Ulrich Molitor, 1485, da Lamiis et pythonicis mulieribus

La figura che traspare dalle testimonianze è quella di una donna povera, senza fissa dimora, in cerca di un’occupazione, che fa diversi lavori, per esempio la filatrice e la panificatrice, sempre in cerca di sostentamento. Una donna del popolo, illetterata, che era però custode di pratiche e credenze tramandate da generazioni con le quali cercava di alleviare le sofferenze e di soddisfare i bisogni di vite nelle quali scienza e tecnologia non erano ancora comparse, e che, quasi sicuramente, in questo modo, si assicurava di che vivere.

Una donna anziana, per l’epoca, una figura particolare, inusuale, ricercata e contestata allo stesso tempo; una donna delle cui qualità morali e della cui vicenda non ci è dato sapere più di tanto, che non possiamo giudicare oggi, ma comprendere se inserita nelle dinamiche del tempo. Ci piace immaginare Maria per le strade strette dentro le mura, col volto segnato dalle rughe del tempo, curva sotto il peso degli anni e delle storie vissute, che si aggira in un mondo passato che ora non c’è più, affollato di gente, straripante di vita, di amore, di dolore, di sofferenza, di paure e di povertà, brulicante di storie, nel via vai scomposto di volti, nel chiasso dei vicoli.

Alessandra Derriu

Tratto da A. Derriu, Il tribunale dell’Inquisizione di Alghero. Storie di donne e di uomini attraverso documenti inediti del XVIII secolo, Alghero 2015.

Alessandra Derriu (Alghero, 1979). Laureata in Conservazione dei Beni Culturali, presso l’Università degli Studi di Sassari, specializzata a Roma alla Scuola di Archivistica, paleografia e diplomatica dell’Archivio Segreto Vaticano. Ha lavorato presso l’Archivio del Comune di Alghero, l’Archivio della Diocesi di Alghero-Bosa e l’Archivio della famiglia Simon-Guillot. Titolare di una borsa di ricerca della Regione Sardegna, presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, ha svolto l’attività di indagine in storia medievale della Sardegna occupandosi dell’edizione di fonti, cartacea e digitale, pubblicando Atti contabili della villa di Alghero (mandati e ricevute di pagamento anni 1405-1415), 2005; Alghero e i suoi privilegi in alcuni documenti inediti del XV secolo, 2007; Gli atti notarili del XV secolo dell’Archivio Capitolare di Alghero, 2009; L’Inventario dell’Archivio del Capitolo Cattedrale di Alghero, 2013; Il tribunale dell’Inquisizione di Alghero. Storie di donne e di uomini attraverso documenti inediti del XVIII secolo, 2015. Tra i suoi interessi di studio, l’amministrazione della giustizia nella Sardegna catalano-aragonese ed i processi per stregoneria e superstizione. É archivista presso l’Archivio Storico Diocesano di Alghero ed insegnante di storia presso l’Escola de alguerés P. Scanu.

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