Angeli di Pietra

di Roberto Barbieri

E’ probabile che, sul nostro pianeta, ogni specie vivente abbia in qualche modo coscienza della morte. Della propria morte e forse anche di quella dei suoi simili. La morte dell’individuo, pur biologicamente necessaria e logica, racchiude in se qualcosa di innaturale, qualcosa che sembra in contrasto con le strategie di sopravvivenza e di difesa che regolano le azioni di un qualsiasi organismo vivente.

La specie umana, poi, caratterizzata proprio da un elevatissimo grado di autocoscienza, è andata oltre, ed ha sondato, nel tempo, infinite risposte sul perché sia ineluttabile morire.

Già nel lontanissimo Paleolitico, le comunità umane hanno imparato a usare la straordinaria capacità cerebrale dell’astrazione ed a separare il mondo materiale da quello immateriale. Hanno imparato a vedere l’invisibile con l’immaginazione e ad intuire la natura delle cose oltre le informazioni dei cinque sensi. Bisognava dare in qualche modo un senso, un significato e un’interpretazione alla morte. In qualsiasi momento un membro della comunità poteva avere un incidente e morire, poteva ammalarsi e morire. Bisognava dare un senso a questa strana e innaturale cosa. Bisognava esorcizzarla, ritualizzarla, interpretarla e sacralizzarla.

Gli antropologi e gli archeologi di oggi hanno scritto infiniti libri sui rituali funebri antichi e su come le comunità di ogni tempo si sono rapportate con la morte dei loro membri.

Ora come in passato, le culture umane si caratterizzano proprio dai loro rituali funebri e dai monumenti che li accompagnano. Se non fosse così, tantissimi monumenti del passato non sarebbero mai stati edificati. Oggi non avremmo le piramidi egizie o l’esercito di terracotta di Xi’an, non avremmo i tumuli celtici o le tombe micenee, non avremmo Tutankamen, le tombe dipinte della Valle dei Re e nemmeno il Taj Mahal.

Anche la Sardegna antica ci racconta di tante diverse culture, di tanti riti funebri e di diverse tipologie di inumazione. Tombe nascoste nei bui recessi delle grotte, spesso in presenza di acqua come elemento di vita e di trasporto. Oppure tombe scavate nella roccia copiando le forme delle case dei vivi, ma con scolpita una falsa porta per mettere in comunicazione il mondo di qua da quello dell’aldilà. O le grandi tombe dei giganti nuragiche, con le alte esedre frontali munite di piccole aperture per comunicare con il mondo dei morti. E tante altre tipologie, come le tombe di Monte Prama sormontate da statue, o i tofet e le necropoli puniche in terra sarda, in particolare le imponenti fosse su roccia di Tuvixeddu.

Oggi le città dei morti sono i nostri cimiteri, mediati da due millenni di religiosità cristiana, ma con echi di lontani paganesimi e animismi. Soprattutto i cimiteri monumentali sono uno straordinario libro dove le pagine del tempo prendono forma nella pietra, simbolo di eternità, e dove le tombe e i nomi si accompagnano a statue, sculture, oggetti o semplici fiori, per attestare la continuazione, oltre la morte, di un tenue legame tra chi non c’è più e chi è rimasto a ricordare.

Tombe simili a casette, quasi come le domus prenuragiche, o tombe sulla terra, o semplici lapidi, o loculi. Città silenziose vegliate da angeli di pietra e da verdi fiamme di cipressi.

Luoghi di silenzio e meditazione, luoghi dell’anima e dei pensieri profondi, i cimiteri sono la materializzazione, nella pietra, dei nostri affetti interrotti, dei nostri amori spezzati.

Percorrendo i tanti monumentali cimiteri sardi, è possibile, in qualche modo, ripercorrere molte storie e tragiche vicende personali, è possibile camminare in un’antologia di Spoon River, non scritta, ma fatta di messaggi di pietra, di fotografie di vita incise per sempre nel marmo bianco.

Questi messaggi di grande maestria artistica, che vanno oltre il tempo e sembrano fermare l’invecchiamento e la morte, li ritroviamo qua e la nei cimiteri sardi, e sono dovuti alla mente e alla mano di un uomo dalle eccezionali abilità: Giuseppe Sartorio.

Un bravissimo scultore, certo, ma un uomo addirittura capace di restituire le esatte fattezze della persona amata e di collocarla, quasi fosse viva, presso la tomba di famiglia.

Lo scultore Giuseppe Sartorio nacque in provincia di Vercelli a metà Ottocento. Operò in Piemonte, nel Lazio e soprattutto in Sardegna. Lavorò moltissimo e la sua straordinaria capacità di far tornare in vita le persone defunte, sia pure imprigionate per sempre nel marmo, gli procurò un elevatissimo numero di commesse. Si organizzò pertanto con vari laboratori artistici, dove gli apprendisti imparavano a scolpire statue monumentali e cimiteriali. Nel grande laboratorio di Cagliari aveva decine di operai. A Sassari il laboratorio era posto in Piazza Sant’Antonio e vi lavoravano come apprendisti i fratelli Antonio ed Andrea Usai. In particolare, Antonio, classe 1873, tre anni più giovane di Andrea, era il padre dell’indimenticabile medico e cineasta algherese Arturo Usai, ed il padre anche di Ettore (classe 1899) pure lui scultore e che poi si trasferirà e lavorerà a Rio de Janeiro.

Sassari. Il laboratorio dei fratelli Usai in piazza Sant’Antonio.

Come spesso avveniva nelle botteghe artigiane, il maestro coordinava il lavoro ed affidava parte o tutta la lavorazione di una statua ai suoi migliori apprendisti, firmando l’opera se questa gli riusciva gradita.

Si arrivò cosi al primo dopoguerra e agli anni Venti del secolo scorso. Una notte di settembre del 1922, Giuseppe Sartorio, come faceva spesso, salì su un piroscafo a Terranova (Olbia) diretto a Civitavecchia, ma non arrivò mai a destinazione. Non se ne seppe più nulla. Scompare così, in un alone di leggenda, uno scultore geniale e prolifico. Ma per fortuna tanti cimiteri sardi accolgono le sue splendide opere o quelle dei suoi allievi.

Giuseppe Sartorio con i suoi collaboratori (foto da web)

Giuseppe Sartorio opera quindi a cavallo tra ‘800 e ‘900 in un periodo ancora intriso di perbenismo cattolico. E sicuramente non tutti vedevano di buon occhio questo personaggio che aveva il potere di far rivivere i morti, sia pure nella pietra. Quest’uomo in realtà ci sfugge e di lui sappiamo poco. Abbiamo solo qualche rara foto. Anche la sua strana scomparsa in mare non ha fatto altro che alimentare misteri e leggende. Ma possiamo capire il carattere dell’uomo dalle sue tante opere realizzate. In particolare possiamo immaginare la sua personalità guardando la facciata della sua casa di Roma, ancora esistente in via Tiburtina. Sulla facciata una sua opera in terracotta raffigura un uomo anziano con barba e cappello da pastore sardo, e due ragazze vicino a lui. L’uomo ha un binocolo in mano e tutti e tre guardano divertiti la gente che passa in strada. Sembra di leggere l’ironico distacco che lo scultore doveva avere nei confronti dei suoi contemporanei.

Opera in terracotta sulla facciata dell’abitazione di Giuseppe Sartorio in via tiburtina (foto da web)

Ma torniamo ai cimiteri e alle sculture monumentali.  Ad Alghero uno strano vento di follia spinse l’amministrazione, nel secondo dopoguerra, a smantellare il cimitero storico risalente e metà Ottocento e che si trovava presso l’attuale chiesa della Mercede. Parte delle statue e delle lapidi furono trasferite nel nuovo cimitero, ma molte vennero distrutte o si persero per sempre.

A corredo di questo breve articolo, vogliamo percorrere, con una galleria fotografica, alcune delle opere di Sartorio e dei fratelli Usai poste in terra sarda. Un percorso casuale ed emozionale dove il realismo delle statue e la morbidezza del marmo sembrano creare “presenze” in grado di lenire la solitudine dell’esistenza o sembrano materializzare l’immagine di chi non c’è più. Sono angeli dallo sguardo bonario, di marmo spesso carneo, che la pioggia e il tempo hanno rigato di lacrime scure.

Ma anche angeli dalla sguardo severo, che sembrano ricordare l’eterno conflitto tra la dolcezza dei ricordi e la tragicità biologica del vivere.

Oppure sono vecchie sedute davanti all’uscio di casa o sedute ai piedi del letto a far compagnia al marito morente. O vecchie piangenti e prostrate. A volte sono addirittura anime di pietra che escono dalla tomba per salire verso il cielo.

L’arte di Sartorio la si riconosce subito. Tutti i dettagli sono perfetti. Gli sguardi, i gesti, le mani, i capelli, le scarpe, i cuscini, i tappeti e soprattutto i vestiti, perfetta riproduzione dei vestiti di allora.

Ma forse i capolavori più toccanti di questo grande artista sono i bambini e le bambine che lui ha scolpito, affidando alla pietra persino i loro giochi e la loro spensieratezza.

E’ il caso del piccolo Efisino (cimitero di Bonaria, Cagliari), ritratto come addormentato su una sedia con un cavallino giocattolo in mano. Quando la madre lo vide, non capì che era morto e disse – Cattivo! Perché non ti risvegli? E, sempre a Bonaria, la piccola Mariuccia, con lo sguardo perso verso una vita che incomprensibilmente le sfugge.

Efisino cimitero monumentale di Bonaria Cagliari
Mariuccia (foto da web)

 

Oppure la piccola Zaira (cimitero di Iglesias), spensierata nei suoi sei anni, che gioca con la ruota vicino a una colonna spezzata e caduta.

Zaira (foto da web)

E grande tenerezza fa, in chi la vede, la piccola Iole (cimitero di Sassari). E’ in piedi dentro un anfratto di roccia e cerca con le braccine di tenersi il vestitino per farsi ancora più piccola. Sta giocando a nascondino ed ha sul viso un’espressione da monella. Sembra dire al mondo – Cercatemi pure, cercate,… tanto non mi troverete mai!

Iole (cimitero di Sassari)

Queste opere d’arte, presenti in tanti cimiteri sardi, rappresentano uno straordinario patrimonio collettivo e deve essere fatto ogni sforzo per difenderlo dall’inquinamento, dall’invecchiamento dei materiali e dal vandalismo. Le conoscenze scientifiche per la loro tutela esistono. Il Laboratorio per Restauro dell’Università di  Cagliari ha già al suo attivo almeno 40 interventi conservativi sulle statue del cimitero di Bonaria.

Le foto di questa Galleria Fotografica dal titolo “Angeli di Pietra” sono state scattate in vari cimiteri sardi e sono qui disposte in ordine casuale. Molte di queste foto ritraggono sculture di Giuseppe Sartorio o dei fratelli Andrea ed Antonio Usai.

Una raccomandazione: dietro ad ognuna di queste foto ci sono storie vissute da persone e famiglie. Visionatele con rispetto.


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Fotografie di Carmelo Murgia e Roberto Barbieri tutti i diritti riservati.
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