Filomena Cherchi e il segreto di Lucia

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Vari mesi fa mi sono ritrovato tra le mani un libro di una scrittrice sarda sconosciuta: Filomena Cherchi. Era un tascabile con un’elegante copertina rigida ed una foto degli Alinari in sovracoperta. Prezzo: neanche 5 euro, abbinato al quotidiano la Nuova Sardegna. Il costo di 2 aperitivi in un bar. Io stesso l’avevo comprato qualche anno fa e, senza nemmeno aprirlo, l’avevo disperso tra tanti altri libri. Poi, in quelle casualità ineluttabili che puntualmente accadono, tante volte descritte dal grande J. L. Borges, mi ritrovai, come già detto, quel libro tra le mani e lo aprii. Titolo: Il canto del pastore.

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Mi bastarono le prime righe della prefazione per capire che non era la solita storia sarda di banditi e abigeatari. Da quelle pagine volevano uscire con forza, come una pellicola a lungo dimenticata nella sua fredda teca metallica, le immagini di una scrittrice morta giovanissima che racconta di una ragazza (Lucia Derios) con tanta voglia di vivere, che trascorre giorni felici in una casetta di campagna tra i bellissimi paesaggi a sud di Alghero, attorniata dagli scenari degli altipiani di Villanova Monteleone (paese in cui vive) e dal mare di Poglina e di Tangone. Ma la ragazza (questo è il suo tragico segreto), è portatrice sana di tubercolosi e, illudendo se stessa di essere guarita, finirà per trasmettere il male alla giovane figlia che ne morrà. E’ facile capire che, in questa struggente storia, l’autrice ed il suo romanzo sono una cosa sola. Filomena, malata di tubercolosi, racconta un pezzo della sua vita e poi sogna una vita che non avrà. Anche Grazia Deledda farà qualcosa di simile con il suo ultimo romanzo La chiesa della solitudine, in cui la protagonista, proprio come la scrittrice, si porta addosso un male incurabile.

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Rocca pinta

Ma torniamo a Filomena Cherchi. Nasce a Villanova Monteleone a fine 800 e mi piace pensare che era quasi coetanea del grande poeta della terra andalusa, F. G. Lorca. Ed entrambi canteranno di amore e di morte, i due temi del nostro essere al mondo. Poi Filomena si ammala di tubercolosi e finisce i suoi giorni nell’ottobre del 1916 su un triste letto di un “sanatorio”, a Sassari, rinchiusa lì come un’appestata. Aveva appena compiuto 19 anni. Brutto anno, quel 1916, proprio cento anni fa. Moriva Filomena, di un male allora incurabile, morivano i sassarini sul fronte del Carso, morivano di stenti e colera i prigionieri austro ungarici all’Asinara. E in Sardegna si moriva anche di malaria, di tifo, di spagnola e di miseria o si era costretti a partire per l’Argentina o per Ellis Island.

Malattia terribile la tubercolosi, per cui si costruivano invano i sanatori, come l’ospedale marino di Alghero, nel centro storico. Malattia dai tanti nomi: tisi, mal sottile, poriformalicosi, consunzione ed appunto, tubercolosi, o TBC. Nel corso del solo 900 ne moriranno, nel mondo, almeno 100 milioni, il doppio dei caduti della seconda guerra mondiale. Ed ancora oggi nel mondo, nonostante gli antibiotici, si ammalano ogni anno almeno otto milioni di persone e due milioni muoiono.

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Panorama

Male che consuma, male contagioso, male che illude perché spesso si pensa di essere guariti, ma si è solo portatori sani. E Filomena, nella sua piccola Villanova, convive con il male e scrive tanti brevi romanzi che non verranno pubblicati. Anche Il canto del pastore salterà fuori solo a quasi novant’anni dalla sua morte. Ma Filomena scrive, e scrive pagine intense e cariche di pathos giovanile, e descrive con precisi toponimi e dettagli gli ampi spazi degli altipiani che da Villanova scendono verso il mare, descrive le spiagge, le barche da pesca, il faro di Capo Caccia, la chiesetta della Speranza, la vita in quei luoghi, il profumo della macchia mediterranea ed il delicato tintinnare delle greggi. E’ tra questi paesaggi che avvengono le vicende di Lucia, della sua famiglia e dei giovani pastori che curano la casa delle vacanze dei Derios, vicino al mare. E’ un affresco di una Sardegna ormai lontana nel tempo, di spostamenti a cavallo tra impervi sentieri, di precarietà della vita e delle poche e secolari regole del mondo pastorale. La voglia di vivere di Lucia verrà condizionata dal suo segreto. Il suo desiderio di costruirsi una vita normale, con un marito e dei figli, verrà condizionato dalla sua condizione di malata. Però il dramma interiore prorompe all’esterno in una struggente descrizione di questo angolo di Sardegna, ben poco raccontato dagli scrittori.

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Le croci

Inoltre Filomena gioca, con matura proprietà, con la lingua sarda, con i mutos cantati dai pastori, e gioca anche con l’algherese in un dialogo tra i pescatori locali e la famiglia Derios, sulla spiaggia di Poglina.

Filomena, sul filo di un amore identitario, elenca con cura i nomi dei luoghi, le specie di piante ed insetti che Lucia incontra e dipana i destini incrociati dei protagonisti.

Ed è così che, dopo aver letto il libro, ho sentito il bisogno di salire oltre Scala Piccada, verso gli alti pianoti tra Nuraghe Appiu e la Torre di Badde Jana, per ritrovare i vasti paesaggi descritti dal romanzo. E ritrovare le aspre e selvagge discese costiere verso Pedramare e verso la spiaggia della Speranza.

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Torre di Badde Jana

Ho sentito anche il desiderio di sapere di più di questa ragazzina morta esattamente un secolo fa. Di leggere le altre cose che ha scritto, di inseguire gli inediti manoscritti che sembra abbia lasciato, e di trovare la tomba con il suo nome.

L’ho cercata nel camposanto di Villanova Monteleone, ma non c’è. Forse è a Sassari, ma nessuno lo sa, nemmeno i nipoti. Forse non c’è neanche più, portata via dal tempo e da una Sardegna che dimentica facilmente i suoi figli.

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Campagne di Calabona

Ma anche se nessuno sa dove è ora Filomena, c’è comunque un modo per ricordarla. Ed è, come ho detto, ripercorrere i luoghi che lei racconta. La costa che serpeggia per oltre quaranta chilometri tra Alghero e Bosa è, ancora oggi, uno dei tratti costieri più belli ed incontaminati d’Italia. Tutto è rimasto come lo vedeva, allora, Filomena. Solo le persone sono cambiate. C’è ancora il vento salmastro che odora di mirto e di rosmarino, ci sono le distanti montagne azzurrate, il tripudio giallo oro della calicotome primaverile, il lampeggio lontano del faro di Capo Caccia, la chiesetta della Speranza, gli stazzi, i boschetti di leccio ed olivastro. E, a ben guardare, c’è ancora la casetta, tra il piccolo ruscello ed il canneto, dove Lucia Derios visse i giorni felici.

Filomena se n’è andata cento anni fa, lasciandoci i suoi manoscritti. Ha lasciato tanto, nonostante una vita tanto breve. A noi il compito di non dimenticarla.

Roberto Barbieri

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