La riva muta

La riva muta©

Capitolo 2

di Valeria Solinas

Dalla veranda guardo il mare. È necessario, come linfa che progredisce nelle viscere e mi emoziona. Mi scosto dagli occhi i capelli lievemente arruffati, il maestrale li confonde. Sono tutti bianchi, qualche ciocca grigiastra è rimasta per intenerire la ricrescita generosa. Le mie mani sono appassite, osservo la proliferazione di lentigo sul dorso, a pochi centimetri dai polsi, che sono diventate più numerose negli ultimi mesi. Le macchie sulle mani improvvisamente mi fanno scoprire vecchia pur non sentendomi tale.

Attraverso Alghero come ogni mattina allungando il passo con la mia sporta sdrucita e robusta su per i Bastioni. Sembra che la vecchiaia abbia avvelenato anch’essa, ogni piccolo strappo è una ferita di guerra che si allarga con l’incedere inesorabile del tempo che passa. Il percorso che mi fa arrivare fino al mercato lo ingoio a passo svelto, non temo l’osteoporosi né voglio inselvatichire la mia pigrizia.

La strada è sempre uguale, quei ciottoli conoscono a memoria il travaglio del mio contatto incerto col suolo, la zeppa morbida delle mie suole mi protegge dalla fatica eccessiva, mi ripara dall’incertezza della pavimentazione sconnessa. Negozi, secchi dell’immondizia, insegne colorate, lampioni che raccontano la vita della città alternata alle stagioni, sempre uguali e sempre diverse quando si supera l’età della raggiunta pensione come per me. Una rapida successione di muri a pietra e volte a botte che raccontano l’orgoglio catalano di queste calli.

Vedo un sacco verde della spazzatura fuori dall’abitacolo del suo usuale contenitore. Mi infastidisce che la gente non sia civicamente rispettosa del bene comune, ed io, che non sono abituata a limitarmi a guardare, mi accingo a spostarlo dentro il contenitore afferrandolo.

Sento piccoli rumori provenire dal sacco, qualcosa di vivo è lì dentro. La curiosità mi spara al cervello, voglio vedere. Due bassotti piccolissimi, probabilmente nati da poco, sporchi di sangue e placenta, accartocciati a darsi calore, abbandonati da qualche mano infame.

Lascio la mia sporta da parte, appoggio bene il sacco verde per terra. Uno dei due cuccioli è sicuramente morto, un maschio. L’altro è una femmina, si muove ancora.

Nessuno mi fa da contorno, sono sola. A quell’ora di mattina presto è difficile incontrare vicini o semplicemente passanti incuriositi dalle vite degli altri. Spingo il mio sguardo fino al mare attraversando i vicoli, non c’è anima viva cui chiedere aiuto, così faccio da me.

Non esito ad agguantare la busta, afferro il mio telefono e chiamo Anna, la mia amica veterinaria. L’ho buttata giù dal letto, quasi mi insulta, ieri sera ha lavorato fino a tardi, i suoi rimproveri saturano le mie orecchie.

«Anna, non so se è un’emergenza, non ne capisco nulla. Per me lo è.»

Mugugna al telefono, le faccio la voce dolce, non può rispondermi di no.

«Dai, portameli.»

Mi fiondo da lei, dall’altra parte della città, senza avvertire il peso della fatica a piedi, con un sacco verde in mano che regge vite che non mi appartengono.

Anna mi aspetta sull’uscio, ha una tazza di caffè in mano mentre ripete epiteti irricevibili contro di me che non possono neppure descrivere. Mi guarda snervata, rinforzo il mio sguardo sorridente per fare leva sulla straordinaria umanità che le riconosco.

«Sempre a fare la crocerossina, Valeria…»

Non rispondo. Le allungo veloce il sacco in mano, è diventato carico di spine, mi sento inadeguata e non so che fare, dove posizionarmi, cosa dire.

«Stai lì, hai già fatto abbastanza…»

Le rivolgo un grazie sincero, sommessamente. Mi lancia un’occhiata, mi chiede di starmene seduta su uno sgabello lontano. Accarezzo la mia vecchia sporta, sembra un cuscino rassicurante e morbido da toccare, ho necessità di allontanarmi dalla crudeltà che le immagini stanno immagazzinando.

Sono trascorsi circa quaranta minuti. Non la osservo mentre si affatica su quei corpicini, finché non mi si avvicina. Non si toglie neppure i guanti insanguinati e mi parla con lo sguardo basso. Sento dolore nel suo incedere, il suo corpo mi trasmette che sta per dirmi cose sgradevoli da ascoltare. Forse ripugnanti e indigeste per chiunque. Chissà a quante persone sedute su questo sgabello ha dovuto dire cose sgradevoli senza eppure guardarle in viso come accade con me.

«Valeria, ecco…»

Anna smorza le parole. Prova ad agganciare il suo sguardo al mio, sento proprio che non ce la fa, è pesante anche per lei.

«Ho provato a rianimare il cucciolo. Non ho potuto fare nulla di più, era già morto. La femmina è viva.»

Sento ambivalenza, sentimenti contrapposti mi assalgono. Sono dispiaciuta per parole che immaginavo già ma tiro un sospiro di sollievo alla bella notizia.

«Non so se quello che sto per dirti sarà piacevole…»

La osservo di sbieco. «Continua», le chiedo.

«Ecco… chi li ha abbandonati ha fatto di tutto perché anche questa femmina morisse.»

Rimango ammutolita e attendo il seguito.

«La chiazza rossastra che hai visto non era placenta. È proprio sangue. Con una lama hanno cercato di sgozzarla, e con un pezzo di legno, forse un bastone, le hanno spezzato la colonna vertebrale. Forse era meglio fosse morta…»

La guardo, rimango inerme, mi faccio piccola come quei bassotti, mi accartoccio sullo sgabello, non ho braccioli dove appoggiarmi, mi sento quasi svenire dinanzi a quelle parole. Provo ribrezzo per il genere umano. Poi, Anna continua.

«Ho suturato la gola, certamente le hanno reciso le corde vocali. Probabilmente non volevano che si udissero i suoi lamenti. Sei stata brava a notare il movimento delle zampine anteriori. Nella parte bassa rimarrà paralizzata, qualora si salvasse.»

Impietrisco.

«Anna, fai di tutto per salvarla. Te ne prego.»

Anna non mi risponde, non aggiunge altro. Mi vede turbata, me lo dice. Ha perfettamente ragione, ho la schiuma nel cervello, non capisco più nulla.

Mi dice di andare a casa, mi chiamerà se ci saranno novità.

«Adesso dovrà rimanere qui, devo curarla. Vedremo nei prossimi giorni. Ti avviserò comunque. E tu potrai chiamarmi quando vorrai… tanto lo fai già.»

Mi strappa un sorriso, il mio corpo rotondo si fa ancora più pingue. Sento la fatica di alzarmi dallo sgabello, che pare incollato al mio culo.

***

Il mercato mi sembra improvvisamente insopportabile. L’immagine di quei cani mi rimane in testa, un frame incancellabile stampato nella memoria che sembra assorbirmi l’energia.

Mangio chilometri di pavimento in casa, accendo la radio affinché possa distrarmi, il pensiero rimane inchiodato e fisso sul mantello raso e scuro di quella cagnolina. Per il mio e l’altrui benessere mi è necessario alleggerire la giornata, ho bisogno di circondarmi di esperienze non tossiche che non mi avvelenino ulteriormente l’anima e i pensieri. Ingrid mi vede nervosa, non mi avvicina quando mi vede in questo stato, lascia che scarichi l’energia accumulata come la lava silenziosa di un vulcano.

Chiamo ogni giorno Anna. Mi ripete la stessa solfa, che non mi soddisfa mai. Le condizioni di salute della cucciola sono critiche ma stazionarie, occorre aspettare.

La quotidianità dei miei giorni è affrancata dalle passeggiate al mare. Mi accingo a scendere fino a riva, ne subisco il fascino invernale, mi lascio rapire dal vento leggero quando la luce risulta ancora fioca, debole. Ci sono scampoli di oblio notturno aggrappati all’alba, stentano a svanire sull’orizzonte. Passeggio a piedi nudi, affondo un passo dopo l’altro sul bagnasciuga, lascio che la spuma leggera mi accarezzi bagnandomi. Non ho freddo, la brezza del mattino presto mi copre come velluto, sgranchisco gli occhi in mezzo alla posidonia a cercare ristoro. Scorgo qualche marinaio lontano con la canna da pesca, ne riconosco la postura rigida e assorta mentre guarda la lenza.

Sembra una spiaggia muta, necessaria a chi, come me, ha bisogno di accompagnare il proprio viaggio mattutino alla scoperta di rinnovati silenzi. La riva, a quest’ora, appartiene alle anime silenziose, a quelle cui la vita concede di camminare felpate, trasportate dal bisogno di ritrovarsi dall’alienazione quotidiana. È qui che ritrovo i corpi dei passanti raminghi e senza meta. È qui che ritrovo me stessa quando i pensieri mi macinano dentro e posso soffiarli via come pulviscolo. La mia testa è a quella cagnolina, devo chiamare Anna, attenderò ancora qualche minuto prima di essere consapevolmente mandata al diavolo.

«Sì, ciao, ti avrei chiamato io stamattina. Dopo nove giorni, forse posso affermare che è fuori pericolo. Ha solo bisogno di tante cure, amore e attenzioni. Fammi capire, Valeria, vuoi occupartene tu?»

Non ho risposto a quella domanda, probabilmente è bastato un mugugno, una sorta di gemito a farle capire che il mio era un incondizionato sì.

«Mmmmh… okay. Quando vuoi, vieni, così ti spiegherò un po’ di cose.»

Mi fiondo da lei in pochi minuti, arrivo in bicicletta. Mi premunisco di montare il cestino, sistemo dentro una coperta e la mia fedele sporta, non so cosa servirà.

Arrivo trafelata, mi coglie il fiatone, o semplicemente sono agitata perché avrei rivisto quella scricciolina dopo alcuni giorni. Anna me la fa vedere dentro una cassetta morbida, una flebo attaccata alla zampa anteriore destra. La vedo smunta, smagrita, sofferente, mantiene gli occhi aperti. È piccolissima, non posso fare altro che avvicinarle alla bocca il mio dito indice, che improvvisamente sembra enorme mentre spinge la sua lingua minuta fino a me.

«Ha sofferto molto ma ce la farà… hai già un nome per lei?»

Mastico qualche secondo di riflessione, poi esordisco.

«Kira. Voglio chiamarla Kira.»

Anna sorride. Inizio a sussurrare il nome della cagnolina, lentamente e più volte, finché non torna nuovamente a leccarmi il dito. Osservo più attentamente il mantello, morbido, lucido e scuro, con una macchia più chiara all’altezza della coscia sinistra. È minuta, ho paura a toccarla, non ho mai avuto un cane in vita mia, è una novità assoluta prendermi cura di un animale.

«Kira non sarà mai una bassotta comune», aggiunge Anna. «Ti prenderai cura di lei come di una creatura speciale. Non abbaierà mai e, soprattutto, non potrà camminare come gli altri cani. Troveremo un modo per aiutarla a rendersi autonoma. Per il resto dovrai occupartene tu…»

Faccio una smorfia di soddisfazione. Vado a trovarla ogni giorno, Kira cresce, la sua vitalità ha il sopravvento sulla morte, fino al giorno in cui finalmente è svezzata e posso portarla a casa con me. La prendo in braccio come si fa con le creature fragili, come il figlio che un tempo ho avuto. Il destino riserva sempre strane coincidenze, ci mette sui nostri passi le creature giuste per tentare ancora una volta di fornirci premure, possibilità, percorsi per essere ancora felici. Perché essere felici non si può. Si deve.

Omaggio il cielo e le nuvole per quella passeggiata in bici fino a casa, tra i ciottoli sconnessi fino a Davallada de ricciu. Una cuccia calda la attende, alcuni giochi morbidi per i suoi denti, i croccantini per il suo sviluppo, coccole a non finire. Kira riempe il mio tempo, la necessità di cure completa il resto. Anna è splendida, ha iniziato a riabilitare Kira e abituarla a camminare con un carrellino attaccato al dorso, sostituisce la fatica e lo sforzo delle zampe posteriori per le sue passeggiate.

Kira non ha necessità alcuna se non di ricambiare l’affetto che riceve giocando e incuriosendosi delle mie faccende quotidiane, seguendomi col suo carrellino silenzioso.

La porto con me la mattina presto, con la scusa dei suoi bisogni, fino alla riva. Mi accorgo che una giovane donna scende con una carrozzella ingombrante che spinge con disinvoltura, non deve essere leggera. Una bambina che avrà avuto circa sette anni mi osserva dalla carrozzella, il suo sguardo sembra assente. Guardo a tratti la donna da lontano, mentre aiuto Kira a non rimanere impantanata sul bagnasciuga con le rotelle del suo carrellino.

Ogni mattina la scena si ripete, mi decido di avvicinarle. Marina accompagna Gemma a respirare lo iodio del mare. La sua bambina tetraplegica, il suo angelo silenzioso, con i grandi occhi sgranati, conquista il suo pezzo di spiaggia trasfigurando la nostra comune passeggiata quotidiana. Kira impazzisce di vitalità vicino a Gemma, e Gemma sembrava gioire della presenza della cagnolina che tiene in grembo, riesce a toccarla ed accarezzarla, Kira contraccambia con generose leccate sul dorso della mano.

Questa spiaggia è diventata la nostra spiaggia. La riva muta di questa città assonnata mescola le vite, crea nuove armonie in mezzo alla tavolozza di colori che l’alba restituisce ad Alghero. Una bambina e una cagnolina, quiete e silenti, godono di un inesprimibile ristoro. Marina ed io ci guardiamo afferrando un sorriso smorzato, non parliamo mai. Condividiamo l’inattesa risonanza di queste anime taciturne e respiriamo profondamente.

Non ci facciamo domande. Ci basta sorridere, contemplare le mareggiate più impetuose e scompigliarci i capelli arrugginiti dall’umidità. Attendiamo il sole in silenzio, desiderose che ci scaldi addosso e si irradii tra le mie lentigo. Ingrid mi osserva da lontano, percepisce che questo momento è solo mio, scalda le mani attorno alla sua tazza con la tisana. Sa che la casa, la nostra casa, attende momenti di differente intimità, questi sorrisi fanno da cornice esclusiva a una bambina e a un cane.

Le ruotine di Kira cigolano nel silenzio, lei scodinzola abbracciata a Gemma, che con gli occhi sgranati si perde tra i raggi abbacinanti che avanzano.

Come una deliziosa scoperta che toglie il velo al cuore appannato e assopito, adesso viviamo.

Assieme a Kira, adesso vivo.

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