Il mozzo della Giovanni Padre

Alghero, Giugno 1949

 

Nell’atrio del Liceo Ginnasio “Giuseppe Manno” una piccola folla di studenti si accalcava di fronte alla bacheca coi risultati degli scrutini.

Uno spilungone adolescente dalla magrezza quasi ascetica scorse rapidamente la lista dei nomi, si aggiustò gli occhiali da vista sul naso aquilino e lesse la notizia che lo riguardava. Promozione alla seconda liceo. A pieni voti, con lo sconto sulle tasse (agli studenti meritevoli veniva abbuonato il pagamento delle tasse d’iscrizione all’anno successivo).

Uscì dall’edificio senza dire una parola. Il corso era animato dal consueto viavai di casalinghe. Alle chiacchiere delle comari si mescolavano i richiami dei venditori ambulanti e le grida giocose dei monelli scalzi che si rincorrevano per le vie. Incanalato dai palazzi del corso, un refolo di maestrale trasportava profumo di mare, di porto e di verdure messe a bollire da presto.

Assaporando il successo appena conseguito, il ragazzo s’incamminò sovrappensiero verso la vicina piazza Sulis.

Il sole di Luglio faceva sfolgorare la sua camicia bianca, lavata con la cenere, e creava riflessi sui folti capelli neri. Partì di corsa verso casa. Qui c’era solo sua nonna, che gli fece i complimenti e regalò una piccola somma in denaro. Ma dovette attendere il ritorno di suo padre dal lavoro, nel pomeriggio, per ottenere il regalo più ambìto.

Il 1949 in Sardegna non era esattamente un anno di abbondanza. Certo, la guerra era ormai alle spalle, e l’anno prima tutti i cittadini italiani avevano messo fine alla monarchia, col famoso referendum. Fra l’altro, proprio in quei giorni di Giugno, il Parlamento stava discutendo la fine del razionamento di pane e pasta. Ma erano comunque tempi magri. Questa precisazione è necessaria per capire il singolare premio chiesto e ottenuto dal nostro eroe per la brillante promozione.

Il premio consisteva nell’autorizzazione ad imbarcarsi come mozzo sulla “Giovanni Padre”, del comandante Gavino Frulio (Cumpara Gavì) sulla tratta Alghero-Viareggio e ritorno. Il padre del nostro e il comandante Frulio erano grandi amici. La “Giovanni Padre” era una solida imbarcazione da carico a due alberi, con doppia vela latina e motore entrobordo diesel, adibita a fare la spola da e per il Continente, effettuando trasporti per conto di terzi.

Il giovane aspirante mozzo sognava da anni di poter salpare su quel piccolo veliero. Non so dirvi se fosse rimasto affascinato dai racconti di Cumpara Gavì o dai romanzi di Verne, ma certo sentiva forte il richiamo del mare. Intendiamoci: non puntava a fare il lupo di mare per tutta la vita; dopo il Liceo si sarebbe iscritto all’Università, nessun dubbio su questo, ma quell’estate voleva sperimentare il suo primo viaggio oltre i confini dell’Isola. Anche perché la meta era Viareggio, e da quelle parti c’era qualcosa che attirava il nostro in modo irresistibile.

Qualche giorno più tardi, avendo stivato dentro uno zaino militare pochi vestiti di ricambio, un paio di libri e un quadernetto da usare come diario di bordo, il ragazzo si imbarcò.

La “Giovanni Padre” fece rotta verso sud, cavalcando l’onda lunga e bassa, con vento da Nord-Ovest. Per i primi due giorni il giovane mozzo divise il suo tempo fra la branda e il ponte principale, aggrappato alla battagliola, sconvolto dal mal di mare. E si che era magro. Il terzo giorno ricominciò a mangiare qualcosa senza rimetterlo e poi per il resto del viaggio non ebbe più problemi di quel tipo. Molti anni più tardi lui stesso, narrandomi questa storia, disse che dopo quell’esperienza non aveva mai più sofferto il mal di mare.

La vita di bordo scorreva placida, con la costa sempre in vista, ma a debita distanza, su una rotta che Cumpara Gavì conosceva evidentemente a menadito. Le attività di bordo, dalle pulizie al riordino dell’attrezzatura, lasciavano al nostro abbastanza tempo per fare due chiacchiere col Comandante, col Nostromo, sig. Giuseppe (Ciù Giusè) o col motorista, il sig. Duprè, che con quel mestiere aveva fatto letteralmente il giro del mondo. A mensa non mancava mai il pesce fresco e durante il giorno il veliero in corsa era accompagnato per lunghi tratti da branchi di delfini. Alla sera il disco tremolante del sole scivolava silenzioso oltre l’orizzonte. Il cielo diventava un’immenso sfondo di seta nera punteggiato di diamanti. Era talmente grande e maestoso che sembrava in grado di sollevare il veliero dall’acqua, attirandolo dolcemente a se.

La spedizione proseguì, toccando vari porti, caricando qui formaggi e lì tappeti. Doppiarono il capo Spartivento, con un breve scalo a Cagliari. Ripartirono verso capo Carbonara e quindi verso Nord. Arbatax, per caricare vino, sughero, pelli. E infine Olbia; granito e oggetti d’artigianato. Risalirono le coste della Corsica per poi puntare sull’Elba.

Il ventiduesimo giorno di navigazione la “Giovanni Padre” attraccò al porto di Viareggio. Qui c’era da sbarcare e smistare l’intero carico. Si doveva poi attendere l’arrivo di certi camion che trasportavano dei mobili destinati alla Sardegna. Il Comandante diede all’equipaggio la libera uscita di un giorno.

Il nostro eroe, lo ricorderete, qui aveva da fare qualcosa di molto importante. Contò i soldi che aveva portato con sé. Non erano molti ma sembravano sufficienti. Si fece indicare la stazione ferroviaria e acquistò un biglietto. Circa un’ora più tardi, alla stazione centrale di Pisa, scese dal treno e chiese nuovamente indicazioni. C’erano da fare un paio di chilometri a piedi, che non erano certo un problema. Un quarto d’ora più tardi era arrivato alla meta.

L’oggetto dei desideri era lì. Si ergeva quasi perpendicolare rispetto al vasto prato che D’Annunzio chiamava Piazza dei Miracoli. La Torre Pendente: un miraggio di marmo candido studiato in Storia dell’Arte, in Letteratura, e perfino in Fisica, giacché da lì Galileo aveva condotto i suoi studi sulla caduta dei gravi.

L’ampia spianata verde sembrava il centro del mondo. Visitatori italiani e stranieri affluivano continuamente, a gruppi, a piedi o con carrozze a cavalli. Alcuni sedevano tranquillamente sul prato ad ammirare i monumenti. Gli altri – la maggior parte – si aggiravano ammirati intorno e all’interno del magnifico Duomo e dell’imponente Battistero, posavano per le foto scattate da fotografi di strada, acquistavano guide, cartoline e souvenir; facevano la fila per salire sulla Torre.

Il nostro acquistò un biglietto e fece diligentemente la fila, rapito dalla bellezza del luogo e da quella moltitudine internazionale. Catturò brandelli di discorsi in francese, facile per lui, fresco di studi, ma anche discorsi incomprensibili in qualche lingua nordica. La Torre era incredibile. Le colonne di marmo ricordavano le stalagmiti della Grotta di Nettuno, ma queste erano ardite, armoniche e slanciate più di qualunque cosa lui avesse mai visto, opera dell’uomo o della natura. Sul tetto della torre si appoggiò al parapetto, osservando dall’alto la piazza. Sembrava di trovarsi su una mongolfiera. O sul tetto del mondo.

Dopo la Torre visitò il Duomo e il Battistero. L’ora di pranzo era passata ma lui ignorò le numerose bancarelle di cibo di strada ai margini della piazza perché aveva i soldi contati. Si dissetò ad una fontanella, abbracciò con un lungo sguardo quel sito straordinario, e si diresse verso la stazione.

Qui si rese conto che, avendo pagato per l’ingresso alla Torre, non aveva più abbastanza denaro per il biglietto di ritorno. La strada non la conosceva, ma dovevano essere almeno venti chilometri e non avrebbe potuto percorrerli a piedi entro sera. Si fece indicare l’uscita della Statale verso Viareggio. Un tassista dalla pronuncia simpatica ce l’accompagnò gratis. Qui, per lunghi minuti, rifletté sulla propria condizione. Cumpara Gavì si sarebbe preoccupato moltissimo. Forse il buon Comandante avrebbe girato tutte le bettole del porto per cercarlo. Poi avrebbe chiamato gli ospedali, e poi la polizia. Un disastro.

Di lì a poco però, per fortuna, un camionista gentile, diretto proprio a Viareggio gli diede uno strappo quasi fino al porto. Risalì sulla “Giovanni Padre” poco prima del tramonto, stanco e affamato, ma soddisfatto. Consumò la cena con buon appetito, in compagnia dell’equipaggio, senza fare cenno a come e dove avesse trascorso la giornata. L’indomani il carico fu completato e il comandante poté riprendere il mare. Rotta verso la Sardegna. Verso casa.

Giuseppe Pala

 

 

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