La conquista del west

di Roberto Barbieri

La Nurra. Il territorio dell’estremo nord-ovest della Sardegna, ed è anche l’estremità più occidentale dell’Italia centro-meridionale. Un migliaio di kmq che si protendono verso il mare, a ovest, a forma di quadrilatero irregolare. Pianeggianti nel tratto orientale, da Porto Torres ad Alghero, e via via sempre più accidentati fino ad incontrare il mare.

Nel raccontare come l’uomo riuscì con gran fatica ad insediarsi in questo territorio aspro e difficile, il titolo La conquista del west può sembrare esagerato, ma per molti secoli la Nurra resistette alla colonizzazione umana con la forza degli acquitrini malarici, delle lande pietrose, degli intricati boschi di essenze spinose e delle coste alte, battute dal maestrale e pericolose per la navigazione.

Una grotta nel promontorio di Capo Caccia

Ma il lento avanzare dell’uomo verso ovest, dal 1800 in poi, non fu in realtà una conquista, ma una riconquista. Molto, molto prima, le genti che arrivarono qui, nel Neolitico antico, seppero probabilmente cogliere il fascino selvaggio di questi luoghi e si insediarono nelle tante grotte carsiche della Nurra meridionale. Le grotte erano rifugio, fonte d’acqua, e ispirazione di sacralità e religiosità. In particolare la Grotta Verde, il cui ingresso si apre, come un grande occhio rivolto ad oriente sull’alta parete rocciosa di Capo Caccia, era luogo sia dei vivi che dei morti. La grotta è un’impressionante cavità imbutiforme che, come un girone dantesco scende verso il basso. Era abitata nelle sue parti superiori, mentre molto più giù, nel buio totale e presso la riva di un grande lago interno, quegli uomini deponevano i loro morti insieme a vasi colmi di cibo per consentire loro di attraversare indenni le acque dell’aldilà. E molto dopo, millenni dopo, l’eco di questi riti troverà il modo di ritornare fino a noi con i dipinti delle tombe egizie, o con il viaggio negli inferi di Ulisse, di Enea o di Dante. E non può essere un caso che proprio il promontorio di Capo Caccia venne chiamato dai Romani Caput Hermaeum. Perché? I promontori sul mare erano il più importante riferimento della navigazione antica, ed erano i luoghi di incontro e smistamento delle rotte mediterranee. Ai capi venivano dati nomi importanti ed evocatori. E così, l’estremo promontorio del sud della Nurra, venne dedicato ad Hermes, o Mercurio, il messaggero degli dei ed anche il dio che accompagnava le anime nell’aldilà. Ed è interessante notare che anche la famosissima Grotta di Nettuno, sempre posta nello stesso promontorio, si caratterizza per un grande lago interno che i visitatori (dal Settecento in poi) attraversavano con una piccola barca. Le cronache scritte dai visitatori illustri menzionano sempre Caronte ed il misterioso fascino di quelle buie traversate. E non è un caso che uno dei simboli del dio Hermes fosse la tartaruga, proprio il profilo del promontorio per chi lo guarda, allora come oggi, dal golfo di Alghero.

il profilo di Capo Caccia ricorda una tartaruga

Ed è anche curioso notare che, secoli dopo, nel Medioevo, si trasformò il nome pagano di Hermes nel santo cristiano Ermo od Erasmo e a lui vennero dedicati la Grotta Verde e l’intero promontorio. Solo più tardi, quando arrivarono i conquistadores catalano-aragonesi, che erano soliti organizzare battute di caccia in queste coste ricche di selvaggina, si cambiò definitivamente il nome del promontorio nell’attuale Cap de la Caça.

A Porto Conte nell’ottobre del 1541, anche Carlo V, di passaggio ad Alghero con la sua flotta, si divertirà con una battuta al cinghiale.

La colonizzazione moderna dell’aspro territorio della Nurra fu una riconquista perchè già i Nuragici, civiltà mediterranea straordinaria ed originale, avevano intorno al 1000 a.C., pianificato l’assetto del territorio occupando l’intera piana della Nurra, da Porto Torres ad Alghero, comprese le colline e le coste basse. Centinaia di nuraghi, posizionati non certo a caso, stanno a testimoniarlo. Ben dieci nuraghi, alcuni con villaggio, sorgevano intorno a Porto Conte. Baia ampia e riparatissima, era il luogo ideale per un approdo sicuro e soprattutto per organizzare uno scalo commerciale. L’insediamento nuragico di Sant’Imbenia è un luogo straordinario. Intorno a un nuraghe, stranamente quadrangolare, non c’erano solo le capanne, ma era attivo un vero e proprio emporio costiero. Si commerciavano qui le merci prodotte nella Nurra: dai preziosi metalli delle miniere (argento, piombo e pani di rame) ai prodotti dell’allevamento, dal vino ai prodotti agricoli e forse al tonno. Le merci venivano acquistate e poi imbarcate sulle navi che partivano per seguire le antiche rotte mediterranee. Purtroppo per noi, il popolo nuragico non ha lasciato scritti, e possiamo solo immaginare le tante storie di vicende e viaggi, sicuramente simili a quelle narrate da Omero, che si sono perse nello scorrere dei millenni.

Monte Siseri, uno dei tanti nuraghi che punteggiano la Nurra

Poi arrivano i popoli stranieri: Cartaginesi e Romani. I primi molto interessati ai commerci, soprattutto metalli, non si insedieranno stabilmente nella zona, ma a Porto Conte seppelliranno i loro morti. I secondi continueranno a pianificare il territorio, come ben sapevano fare, e a mettere a regime le risorse presenti. Con l’esperienza fatta nel gestire un enorme impero, i Romani pianificarono urbanisticamente il sud e l’ovest della Sardegna: i porti, gli insediamenti interni, le strade, i terreni agricoli, le miniere,… La rete stradale concepita allora, è rimasta in uso per i successivi due millenni.

Da Carbia, posta ad oriente dell’odierna Alghero, la strada si dirigeva decisa verso ovest. Attraversava le malsane paludi di Calic e proseguiva per Porto Conte. Era una strada importante. E’ per questo che i Romani costruirono un lungo ed imponente ponte (circa 160 metri) per attraversare in sicurezza la laguna. L’ovest della Nurra veniva così addomesticato. La strada proseguiva per Sant’Imbenia (insediamento romano vicino a quello nuragico), per Cala del Vino (probabile luogo di pesca e di produzione di garum) e poi correva verso nord fino al lago Baratz, la più grande riserva d’acqua dolce dell’intera Sardegna. Nei pressi sorgeva l’insediamento di Nure, le cui tracce storiche sono forse finite sotto le enormi dune sabbiose di Porto Ferro. Poi ancora la strada romana raggiungeva le miniere dell’Argentiera e l’importante città costiera di Turris Lybissonis, attraversando così l’intera Nurra. L’attuale Porto Torres era un porto strategico e la seconda città della Sardegna per importanza dopo Cagliari.

Il probabile porto nuragico e romano di Cala del Vino

Nure e Nurra. Questi toponimi derivano dall’antica radice Nur, certamente identitaria per l’intera Sardegna e che probabilmente arriva dalle lingue mesopotamiche con il significato di luce (ancora oggi conserva questo significato nella lingua araba). E non solo radice per nuraghe e nuragico. Decine di paesi sardi, soprattutto tra Oristano e Cagliari hanno la parola nur nel loro nome. Nulauro è il nome antico del territorio intorno ad Alghero, e che prosegue ad est con il territorio del Nurkara

Dopo i Romani, la selvaggia distesa della Nurra da Capo Caccia all’Isola dell’Asinara, per molti secoli sprofonda in un Medioevo di abbandono. E ritorna terra ostile ed infida, con pochi radi insediamenti e popolata solo da gente rude e banditi (il più famoso di questi sarà, ormai nell’800, Giovanni Tolu, originario di Florinas ma trasferitori a Leccari, nel centro nord della Nurra).

Leccari, cascina dove visse il bandito Giovanni Tolu

La Nurra come un ovest selvaggio. Sempre più spopolata, era terra di pericoli ed insidie: gli stagni e le paludi malsani e malarici, la terra pietrosa e poco fertile, i pascoli magri. Ed in più esposta ed indifesa di fronte alle periodiche e devastanti razzie dei corsari barbareschi.

Avviata la conquista della Sicilia dall’827 d.C. in poi, gli arabi sapevano che possedere la Sardegna sarebbe stato strategicamente importante non solo per il dominio del Mediterraneo occidentale, ma anche come base di partenza per la conquista del nord Italia. Ma i sardi seppero difendersi, e gli infiniti tentativi di conquista dell’isola fallirono tutti. Erano secoli cruenti. Cristiani e musulmani si scannavano senza esclusione di colpi. I corsari islamici sbarcavano di notte, raggiungevano i villaggi, depredavano e rapivano uomini, donne e bambini, uccidendo chi si opponeva. Porto Torres, Olmedo e i pochi centri minori di un Nurra spopolata furono razziati più volte. Per un certo tempo l’Asinara e le coste della Nurra servirono da basi per i corsari, ma nemmeno loro osarono affrontare il cuore selvaggio della Nurra  La Sardegna dei Bizantini e poi dei Giudicati seppe difendersi da sola o al più con il saltuario aiuto di Pisa e Genova, a loro volta sempre in cerca di conquista.

Sono questi i secoli in cui i sardi sono costretti ad allontanarsi dalle coste, abbandonando i porti e i tanti insediamenti sul mare Nuragici, Fenici e Romani. Vi torneranno a fatica mille anni dopo, fomentando la diceria che i sardi non siano mai stati un popolo di mare.

I corsari barbareschi avevano comandanti spietati i cui nomi, italianizzati, facevano paura: Museto (che più di ogni altro tentò molte volte di conquistare la Sardegna), Dragut, Barbarossa, Occhialì, Assan Corso e Hazan Haga. Quest’ultimo altri non era che un sardo renegado, originario proprio della Nurra. Rapito ancora ragazzo dai barbareschi, venne addestrato alla pirateria dal Barbarossa, e diventerà addirittura terzo re di Algeri. Sarà lui a sconfiggere la flotta di Carlo V nella disastrosa spedizione del 1541.

Nurra, terra con un passato, ma ritornata aspra ed incolta. E come sempre, quando gli anziani tramandano il ricordo di un bel tempo perduto, nascono racconti di focolare e leggende: la città sprofondata nel lago, il Monte Canistreddu e la donna con il canestro di pane trasformata in una statua di sale, il tesoro nascosto di Sant’Imbenia o il castello di Monteforte. Castello che poi leggenda non è in quanto alcune rovine esistono davvero, ci sono pervenuti documenti ed esiste ancora oggi la borgata La Corte. Erano i tempi di Mariano II d’Arborea e di quel Michele Zanche citato anche da Dante. Non lontano, i monti di Bidda (ovvero del villaggio), ma il villaggio è stato pure lui inghiottito dalla leggenda.

Monte Forte, con 464 m il punto piu alto della Nurra

Solo sul finire del 1500, si costruirono le torri costiere a protezione dei villaggi. 10 torri nel sud della Nurra, da Capo Galera a Porto Ferro, e poche altre a nord, tra Capo Falcone e l’Asinara.

Porto Conte era il riparato porto della città fortezza di Alghero, ma la strada di collegamento rimaneva sempre quella tracciata dai Romani, e il vecchio ponte sul Calic resisteva paziente a burrasche e alluvioni. Vi passò sopra anche Pietro IV, sbarcato con il suo esercito a Porto Conte per assediare Alghero. Si accampò poi vicino al Calic, ma l’essere re d’Aragona non lo protesse dal prendersi la malaria durante il lungo ed infruttuoso assedio.

Il vecchio ponte tardo romano

L’ovest del territorio algherese, attraversato da questa antica strada, veniva chiamato il Salt Major, per le sue vaste terre incolte. Territorio abbandonato ed imbarbarito, con selve impenetrabili e dirupi alti sul mare. Luoghi frequentati solo da pochi pastori, da cacciatori, dai tagliatori di palma nana e dai militari delle torri. E proprio la presenza delle torri permise una incerta attività mercantile e di pesca lungo le coste. A Porticciolo, sotto l’omonima torre, fu attiva nella prima metà del 1600 una tonnara. Altre tonnare furono attive vicino alla Torre del Trabuccato (Asinara) o vicino alle torri di Stintino o presso la torre di Capo Galera. E proprio presso quest’ultima torre verrà edificato il Lazzaretto di Alghero, per la quarantena obbligatoria delle navi, delle merci e degli equipaggi. Secondo per importanza solo a quello di Cagliari, il Lazzaretto rimarrà attivo per quasi un secolo e mezzo, a partire dal 1721.

Porticciolo, una delle tante torri costiere antibarbaresche.

Terra di confine, la Nurra. Qui forse più che altrove valevano le tre M che caratterizzeranno per secoli la Sardegna spagnola e sabauda: malaria, miseria e malgoverno.

Soprattutto i 400 anni di dominazione spagnola furono un pesante giogo feudale e segnarono un impoverimento generale della Sardegna, il più triste momento di tutta la storia sarda. Scrive Evandro Putzulu descrivendo quei secoli: A due passi dai centri abitati, incomincia la campagna e il quadro sociale s’adombra di miseria e squallore. Dire campagna è dire feudalesimo, e feudalesimo significa un tiranno in ogni villaggio.

Poi arrivano i Savoia. Intanto le navi approdavano spesso a Porto Conte, e forse per dare un segno di civiltà, nel 1755, viene restaurata la bella fonte monumentale di Stamparogia, posta a nord est della baia, ed oggi tristemente abbandonata. Era re Carlo Emanuele III di Savoia. Lo stesso re che permise ai liguri, esuli tabarkini, di insediarsi dell’isola di San Pietro e fondare Carloforte, ma anche quello che nel 1768 cacciò i pastori residenti dalla sfortunata isola dell’Asinara, avallando un fallimentare piano di colonizzazione, e segnandone un destino che porterà, un secolo dopo, a farla diventare isola lazzaretto e isola carcere.

Ma nella Nurra,  il Salt Major restava indomato.

I decenni a cavallo tra 700 ed 800 sono contraddistinti dai goffi ed infruttuosi tentativi dei vicerè sabaudi di far uscire le aree rurali della Sardegna da una realtà di tardo Medioevo. Per millenni pastori e contadini avevano cercato un difficile modus vivendi. Nella cornice dei feudi imposti dagli spagnoli, l’equilibrio nelle campagne veniva trovato nel mantenimento delle attività tradizionali (ademprivili) e nell’alternanza annuale di pascoli e seminativi (pabarile). Ma il famigerato Editto delle Chiudende (1820) sconvolge tutto, favorendo di fatto i baroni e i possidenti.  La Nurra però, refrattaria ai cambiamenti proprio come lo fu il centro Sardegna, viene coinvolta solo marginalmente da questi cambiamenti, e solo nella sua fascia più pianeggiante, tra Olmedo e Porto Torres.

Ormai i tempi stavano davvero cambiando e l’unità d’Italia (1861) porterà nuove energie e voglia di crescere. In realtà, però, è proprio in quegli anni (1867) che Alghero viene smilitarizzata, assumendo da questo momento un ruolo marginale e perdendo importanti risorse economiche. Sono per la città anni difficilissimi che coincidono, non a caso, con il primo piano di colonizzazione della Nurra. Bisogna guardare avanti, cercare nuove risorse e conquistare territori vergini.

Nel 1864 la Marina costruisce, sul promontorio di Capo Caccia, il bianco edificio del faro ed il vicino Semaforo. In quello stesso anno, sempre la Marina, avvia la colonia penale di Cuguttu (circa 177 ettari tra la laguna di Calic ed il mare), in stretto accordo con il grande carcere appena costruito nel centro di Alghero. Lo scopo è quello di attuare un bonifica della zona malarica con il lavoro dei detenuti.

Si guarda ad ovest. Nel 1867 inizia l’attività estrattiva moderna della miniera dell’Argentiera (era già passato da quelle parti, nel 1838, Honorè de Balzac, con un progetto folle e che non ebbe seguito).

Pozzo Podestà, Miniera dell’Argentiera (foto da web)

In questa seconda metà dell’800, per iniziativa privata, nascono le grandi fattorie agricole che caratterizzeranno il paesaggio della piana della Nurra e i destini di tanti lavoratori. Surigheddu (18), interessantissimo esperimento di azienda agricola sociale (chiamata anche Milanello Sardo), e poi la Crucca, Mamuntanas, San Marco, Sella e Mosca (i Piani), Mugoni (ex tenuta Boselli) e varie altre minori. Aziende importanti che prosperarono per molti decenni ed alcune esistono tuttora. I vigneti dovettero però fare i conti con la filossera e con la peronospera. Poteva essere un disastro, ma la salvezza arrivò dall’America, con l’innesto della resistente vite americana. Quasi un segno del destino, l’America non era solo la terra promessa degli emigranti, ma ci veniva a salvale. La vite americana, gli aiuti militari nelle due guerre mondiali, il piano antianofelico.

Intanto veniva costruito il nuovo ponte sul Calic. Così, dopo circa 1700 anni di onorato servizio, venne lasciato in rovina il ponte antico.

Si andava a ovest, nella Nurra o anche molto più lontano. Racconta Enrico Valsecchi che nel luglio 1897 almeno 500 emigranti disperati (108 famiglie) si mossero da Alghero su carri buoi per raggiungere a fatica Porto Conte. Da li si sarebbero imbarcati per il Brasile.

una delle tante sterrate di penetrazione costruite ai tempi delle bonifiche

A Cuguttu, intanto, i detenuti lavoravano per bonificare e costruire strade. Se si percorre la sterrata che sale sul versante est del Monte Palmavera è possibile ancora oggi leggere, sulle pietre calcaree a lato della strada, i tanti nomi di chi quella strada costruì. Dopo oltre un secolo, l’acqua ha eroso la roccia, ma i nomi sono ancora li, incisi nella pietra Ne citiamo rispettosamente alcuni: Soldato Ortu Giovanni 1911 Cagliari, Obinu Guglielmo Fluminimaggiore, Sanna Antonio Guspini classe 1911, Attilio Servetto 1908, Angelo Pensa 1910, Ciullo Germano, Fini Pietro, Pastorino Lorenzo, Ricci Arturo 1910, Sanna Antonio, Maffei Eugenio Vercelli, Vinci Francesco Cagliari, Marras Giovanni Guspini 1911,…

La strada sterrata, costruita molto bene, non porta oggi da nessuna parte, ma forse allora si pensava di fondare un piccolo insediamento tra i monti Palmavera e Doglia.

Ai primi del 1900 iniziò a operare anche la miniera di Canaglia, nella Nurra profonda. Una linea ferroviaria la collegava alla stazione di Porto Torres. Il west aveva il suo treno.

Miniera di canaglia (foto da web)

Gli anni della grande guerra furono comunque ancora più difficili. Miseria, malattie e fame.

Racconta Amelie Posse Brazdova nel suo Interludio in Sardegna, di quando (nel 1916) raggiunse in barca la spiaggia di Maria Pia (dopo aver assunto per precauzione una buona dose di chinino). Sulla spiaggia si imbattè in uno scheletro umano e poi… Da lì ci inoltrammo a piedi nell’entroterra. Dietro una cresta di basse colline il sentiero scendeva fin sotto  il livello del mare, ed eravamo obbligati a camminare tra pantani salmastri. In queste acque stagnanti la zanzara portatrice della malaria trovava l’ideale terreno di coltura per moltiplicarsi indisturbata. Un edificio bianco risplendeva lontano contro i monti azzurri. Era il penitenziario di stato. Vi venivano mandati dal Continente i condannati ai lavori forzati. Il lavoro consisteva nel prosciugare e coltivare le paludi: ma per il momento non c’erano segni di miglioramento… e nessuno sarebbe andato a insediarsi laggiù spontaneamente.

Pineta impiantata dai carcerati. Sullo sfondo Fertilia

In quest’ultima frase la Brazdova fu profetica. Consolidatosi il regime fascista, nel 1933 venne istituito l’Ente Ferrarese di Colonizzazione e la Nurra entrò nella storia delle bonifiche italiane. Decine e decine di famiglie ferraresi e venete furono “convinte” ad insediarsi nei nuovi territori. Lo sforzo fu enorme: si bonificò, si costruirono ponti e canali, si costruirono case coloniche in serie tutte uguali, si costruirono lunghe strade dritte, si piantarono eucalipti e cosi via. Nel 1936 si fondò la città di Fertilia, dall’architettura razionalista e metafisica. Dal 1941 diventò operativa la colonia penale agricola del Tramariglio-Calalunga. L’ovest veniva conquistato e senza conflitti con i sardi, anzi creando una convivenza pacifica quasi unica in Italia. Antonio Pennacchi nel suo libro Canale Mussolini, racconta la storia dell’agro pontino e dei conflitti tra i mangiatori di polenta (i veneti) e i marocchini (i laziali). Nulla di tutto questo avvenne nella Nurra. E neanche dopo, quando arrivarono nell’ovest gli esuli istriani, giuliani e dalmati, o dalla Libia o dall’Etiopia, ci furono conflitti, anzi ci fu rinascita. La Nurra, grazie all’imponente aiuto degli americani della Fondazione Rockefeller, si liberò finalmente della malaria. E iniziò l’ultima e decisiva fase della conquista dell’ovest. Si fondarono tante piccole borgate, si completò rete stradale e una rete di irrigazione. Nel 1951, sulle ceneri degli Enti di Colonizzazione, nasce l’Ente di Trasformazione Agraria e Fondiaria della Sardegna, avviando l’ultima fase della bonifica. Centinaia di trattori estirparono la macchia mediterranea e trascinarono via i massi di roccia con le catene. Se necessario si usava senza parsimonia l’esplosivo (come nella contemporanea guerra di Corea). E si crearono campi da coltivare.

bonifica della Nurra
un vascone di irrigazione

Alcuni bellissimi cortometraggi del grande documentarista sardo Fiorenzo Serra descrivono, più di mille parole, la conquista della Nurra in quegli anni. Titoli evocativi come: Alba sulla Nurra, Cingoli sulla terra, Attorno alla città morta o Assalto alla boscaglia.

Infine, l’ultimo tassello della conquista inizierà da nord e non durerà a lungo. Nel 1961 la SIR di Nino Rovelli pianifica un centro petrolchimico presso Porto Torres. Centinaia di lavoratori lasceranno le campagne per l’industria. L’impatto sociale, ma anche ambientale e sulla salute pubblica non sarà irrilevante.

Oggi la Nurra, conquistata ma non domata, emana un fascino particolare. Ovunque sono rimasti i segni lasciati dalle prigioni dismesse, dalle rovine delle antiche curatorie, dalle aziende agricole vuote, dalle miniere abbandonate o da migliaia di fortini che, in tempo di guerra avrebbero dovuto difendere la linea costiera da uno sbarco che per fortuna non avvenne. Terra con un fascino nascosto. Scrive Enrico Valsecchi:

uno dei tanti fortini nascosti nella boscaglia, della seconda guerra mondiale
interno di un fortino

Ripetute scosse di terremoto, con epicentro in Corsica, avvennero il 13 novembre 1948,…e nei pascoli del nord Sardegna i pastori si accorsero di comportamenti anomali del bestiame. Ma qualcosa di pericoloso, forse crolli di massi, doveva essere avvenuto a Punta Giglio inducendo le persone a rimanere per qualche tempo lontano dalle pareti a strapiombo della falesia. La guerra era finita da tre anni, ma aveva lasciato in talune persone uno stato d’animo di inquietudine,…e per quanto si tentasse di tranquillizzare la popolazione, notizie incontrollate giungevano dagli oceani e preoccupavano l’opinione pubblica. Sulla rotta Bermuda–Azzorre erano stati avvistati gli “spettri del mare”, cioè sommergibili fantasma costruiti in segreto dai giapponesi. Riforniti da governi amici, si diceva che questi battelli, che non volevano arrendersi, approdassero spesso su coste disabitate e si preparassero alla vendetta contro paesi, come l’Italia, che li aveva “traditi”. L’incubo durò fino al 1953. La costa deserta da Alghero a Cala Lunga e quella da Porticciolo a Capo Falcone erano i luoghi che l’immaginazione popolare riteneva più indicati per localizzarvi tutto ciò che fosse fuori dall’ordinario. Sbarchi nemici, atterraggi di Ufo,…

I fantasmi erano ovunque tra questi paesaggi ancora selvaggi. Proprio come l’isola dell’Asinara, ancora oggi popolata da migliaia di fantasmi: malati e morti in quarantena, prigionieri di guerra decimati dal colera, carcerati o guardie carcerarie, ma anche luogo di paesaggi e bellezze naturali straordinarie.

Isola dell’Asinara, la stazione di quarantena.

Guardando oggi la Nurra, con le sue basse colline (chiamate con orgoglio monti), con le baie che si aprono su un mare bellissimo, con i campi arati, i vigneti, gli agriturismi e i servizi turistici, si stenta a credere che solo due secoli fa questi luoghi fossero impenetrabili come un Supramonte barbaricino. Spaziando però da Capo Caccia verso l’Argentiera, o tra i versanti di Monte Forte o più su verso Unia, Capo Negro o Coscia di Donna, si può ancora percepire il paesaggio severo di una terra di confine, aperta verso il tramonto e mai del tutto domata. Ed è forse proprio il sole, che tramonta sul mare oltre i monti azzurri, a lasciare in bocca una malinconica dolcezza, simile al fado delle coste lusitaniche.

tramonto da Monte Canistreddu
P.S.: Ringrazio Enrico Valsecchi e Giacomo Oppia, ai cui scritti ho attinto molto nello scrivere queste righe.
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