Gli esploratori delle grotte di Capo Caccia

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Immagine della targa ricordo

Il 15 ottobre scorso, durante un partecipato Convegno tenutosi nella sala del Quarter e dedicato alle grotte di Capo Caccia, abbiamo ricordato quattro figure ora scomparse che, in modo diverso, hanno tutte contribuito all’esplorazione dello straordinario complesso carsico del territorio algherese.

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Giovanni Pala negli anni 50 foto tratta dal suo libro sulla grotta di Nettuno

Di Giovanni Pala ricordo le lunghe chiacchierate di geologia e di geomorfologia e le escursioni a Capo Caccia e anche in un altro luogo di cui subiva il fascino: le antiche arenarie rosse e violacee di Porticciolo e di Cala Viola. Più che un camminare nello spazio era un procedere a ritroso negli abissi del tempo. Rocce del periodo Permiano, più o meno 250 milioni di anni fa. I continenti ed i mari erano diversissimi da oggi, eppure, questo angolo di mondo anche allora era una costa. Il mare erodeva le rocce e le ridepositava in strati alternati sabbiosi e ciottolosi. Solo il clima era diverso, più caldo e secco, ed è per l’ossidazione che queste rocce sono rossastre.

Nel suo entusiasmo per l’esplorazione e la conoscenza, mi raccontava le difficoltà incontrate nella Grotta di Nettuno per ispezionare i possibili passaggi posti in alto, tra la volta del grande colonnato della zona turistica e anche nel salone CSR, alto più di venti metri. Si usava, con non poco coraggio, una lunga pertica.

Per capire quanto fossero vicine tra loro la Grotta Verde e quella di Nettuno, si usava invece un sistema di magneti per identificare all’esterno la verticale e misurare le distanze. Si capì solo in seguito a questo studio che le due grotte non erano comunicanti.

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Ferruccio Zarini

Di Ferruccio Zarini, al di la dell’amicizia, ammiravo la sua capacità di vedere ciò che altri non vedevano, e di intuire ciò che altri non intuivano. Nell’esplorazione delle grotte come nell’osservazione di siti archeologici (era Ispettore onorario della Soprintendenza) trovava sempre segni e tracce che altri trascuravano. Accadde così anche in una delle sue ultime scoperte. Vicino alla sorgente del Cantar, da lui recuperata a nuova vita dopo decenni di abbandono, trovò un lunghissimo e antico muretto a secco che corre parallelo al mare. Forse nuragico, forse più tardo, comunque sia era li davanti a tutti, ma nessuno l’aveva notato prima.

Ma soprattutto il nome di Ferruccio resterà per sempre legato all’esplorazione delle parti sommerse della Grotta Verde. A metà degli anni 70, con attrezzature subacquee pionieristiche: un filo di Arianna, un bibombola con un solo erogatore poco affidabile ed una semplice torcia, Ferruccio esplorò uno degli ambienti sommersi più straordinari dell’intero Mediterraneo. Enormi camere con stalattiti e colonne sommerse, ma soprattutto un sito frequentato dall’uomo del Neolitico antico (circa 8000 anni fa), quando il livello del mare era oltre dieci metri più basso dell’attuale. Era un luogo sacro, probabilmente per la presenza di acqua dolce. E li, quegli uomini, lasciarono sepolture e vasi, forse di corredo funerario, ora esposti a Sassari al Museo Sanna.

Ferruccio scoprì ed esplorò tante grotte, lasciando al Gruppo Speleologico Algherese (di cui è stato per anni presidente) un enorme patrimonio fotografico e di conoscenze. Ma il suo lascito più grande è stato il fanciullesco entusiasmo con cui si lanciava in grandi imprese di esplorazione ed il suo profondo amore per questo territorio.

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Raffaele Foddai

Raffaele Foddai era l’amico delle immersioni. Socio fondatore del gruppo sportivo Corallo Sub di Alghero dai primi anni 70, era in totale simbiosi con il mare. Iniziò, come quasi tutti, con la passione per la pesca subacquea, per poi diventare corallaro. Ma, a differenza di tutti gli altri corallari, Raffaele aveva frequentato la Scuola d’Arte algherese di Verdina Pensè, e pertanto fu l’unico algherese a lavorare il corallo che lui stesso pescava. Nei tuffi ad oltre cento metri di profondità, qualche volta si portava dietro anche una macchina fotografica o una telecamera scafandrata per il piacere di filmare i giardini sommersi che vedeva. Fu così anche un pioniere dell’esplorazione, perfezionando le tecniche dell’immersione e passando dai sistemi aperti a quelli con recupero d’aria (i sistemi rebreather).

Ma qui ricordiamo Raffaele non per le sue sculture di corallo rosso, ma perché fece da spalla a Ferruccio nell’esplorazione subacquea della Grotta Verde. Ambiente difficile e pericoloso. Lui stesso diceva che preferiva di gran lunga scendere a meno 130 metri, libero in mare aperto, piuttosto che immergersi anche solo pochi metri negli angusti passaggi di una grotta sommersa.

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Cino Sacco

Di Cino Sacco mi viene difficile parlare. Era l’amico, il compagno di immersione, il socio nella scuola subacquea. Eravamo diventati istruttori subacquei insieme, ma era più grande di me e aveva già una grande esperienza subacquea come corallaro. Aveva recuperato i fusti di piombo tetraetile della Cavtat a 100 metri di fondo, aveva pescato corallo in Sicilia, in Tunisia e in tutta la Sardegna. Aveva fatto i lavori subacquei duri, come recupero di cadaveri o altro, quando la protezione civile non esisteva. E aveva molto da insegnarmi.

Intorno al 1975 ero un ragazzo, e portavo le bombole in spalla lungo la discesa della Grotta Verde per aiutare Ferruccio, Cino e Raffaele nelle mitiche esplorazione delle parti sommerse della grotta. Procedevano in fila indiana lungo il cavo, ed al ritorno andavano completamente alla cieca perché l’acqua era diventata torbida. Intorno solo roccia. Il sangue freddo e l’autocontrollo dovevano essere perfetti. E io li vedevo come eroi. Cino poi aveva un fisico forte e possente e scendeva a corallo con un pesantissimo tribombola sulle spalle (più o meno 60 chili).

Poi la sindrome neurologica degli alti fondali ha iniziato a minargli il fisico e ha dovuto rinunciare alle immersioni profonde. Lavoravamo insieme in una scuola subacquea, facevamo corsi di immersione e lavori subacquei.

Poi, dopo aver combattuto ancora una volta come un eroe, il male se l’è portato via.

A fine estate scorsa, abbiamo posto la targa ricordo, con i loro quattro nomi, in una delle grotte di Capo Caccia, tra il silenzio dei grandi spessori di roccia e con la certezza che non saranno dimenticati.

Roberto Barbieri

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