La grotta verde

La mia “prima volta” nella Grotta Verde

di Roberto Barbieri

ingresso
Ingresso della grotta verde

Entrai per la prima volta nella Grotta Verde nel 1970, o forse nel 71. Ero un ragazzino. Con me il mio amico “Gatto”, soprannome che ad Alghero identifica una persona più del nome anagrafico, e un altro nostro amico di cui non ricordo più ne nome ne soprannome. Ricordo però l’eccitazione della giornata, il vecchio zaino militare comprato al mercatino del mercoledì, in via XX settembre in fondo, e che mi pesava sulle spalle, ed il viaggio in autobus fino a Capo Caccia (una sola corsa giornaliera) in quanto nessuno dei tre aveva una macchina e nemmeno patente.

Arrivammo nel piazzale di Capo Caccia, dove finiva la strada, e poi tornammo indietro per un centinaio di metri fino a dove, senza alcuna indicazione, iniziava la scalinata che portava all’ingresso della grotta. Camminavamo veloci ed in silenzio perché eravamo convinti che fosse proibitissimo entrare dentro la grotta e che il guardiano del faro di Capo Caccia fosse lì, con un binocolo, proprio ad osservare le nostre mosse per poi venire a multarci.

Ma non accadde nulla e così iniziammo a scendere i gradini in cemento costruiti negli anni 50 ed ormai smozzicati dal tempo. Anche la ringhiera in ferro, corrosa dalla salsedine, sembrava vecchissima e la vernice blu saltava via spinta dalle grosse bolle di ruggine che gonfiavano il ferro. Il panorama però era bellissimo. Il faro bianco sovrastava il pianoro, tondeggiante ed inclinato verso di noi, che rappresentava l’estremità del capo. Ed il pianoro era ricoperto di palme nane e di grandi euforbie con tutte le sfumature del giallo, dell’ocra e del rosso. Era come un grande giardino sospeso sul mare i cui bordi precipitavano in falesie verticali di roccia tormentata e dalle sfumature aranciate come un dente cariato. Sotto, il mare blu cupo aggrediva la base della falesia con bianchi frangenti. Lontano, oltre le alte scogliere di Punta Giglio, si vedeva Alghero e tutta la costa verso Capo Marrargiu ed oltre fino a Montiferru.

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Piccola spiaggia sotto l’ingresso

Più giù, quasi alla fine dei gradini, un ampio terrazzo roccioso, fitto di intricata vegetazione, interrompeva la verticalità della parete. Poco oltre il percorso era interrotto da un alto cancello, chiuso da un passante e da un grosso lucchetto arrugginito. Non potevo immaginare allora, in quella mia prima avventura, che anche vari decenni dopo ci sarebbe sempre stato un cancello chiuso da scavalcare per entrare nella Grotta Verde. Comunque sia, quel cancello chiuso mi intimoriva. Sia in alto che lateralmente, verso destra, si prolungava in lunghe e acuminate punte metalliche. Al di sotto, il vuoto della parete con un salto di un’ottantina di metri. Quella volta, con notevole incoscienza, passammo all’esterno, attaccati per non precipitare proprio a quelle punte che avrebbero dovuto dissuaderci.

Finalmente dentro, una grossa colonna di roccia verde ci imponeva di aggirarla o a destra, vicino al precipizio, o a sinistra, con una discesa più sicura. Verso il mare, la costa scendeva fino ad una spiaggetta con un’acqua color smeraldo tra massi lisci e bianchissimi e poco oltre, lo scoglio di Sant’Erasmo. Superata la colonna e fatti pochi passi ci colse all’improvviso la vastità dell’ingresso e la bellezza del luogo. L’ingresso della grotta è un’enorme cavità imbutiforme che scende scura verso il basso come un inferno dantesco. Però la volta è di roccia chiara e riflette tutta la luce che, soprattutto di mattina, invade la grotta. Questo gioco di riflessi, insieme alla forte umidità, consente a microscopiche alghe verdi di vivere e di tappezzare rocce e stalagmiti con un caratteristico colore verde scuro, denso ed uniforme. E qua e la, sulla volta riescono anche a vivere piccoli cespugli di capelvenere.

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Ingresso e “Cipressi”

Iniziammo ad avventurarci in questo luogo incantato e misterioso. La nostra attrezzatura speleologica consisteva in vestiti vecchi, fiammiferi, candele ed una piccola torcia elettrica a testa, legata al polso con un laccio da scarpa. Niente casco, acetilene, imbragature o simili. A metà discesa trovammo i resti di quello che sembrava un vecchio muro non finito addossato ad una parete. Gatto, il più informato di noi, ci disse che erano i resti di un antico altare collegato con il culto religioso di Sant’Elmo o Sant’Erasmo. Nel tardo medioevo e durante il periodo catalano-aragonese, la grotta si raggiungeva in barca dalla spiaggetta salendo il ripido pendio esterno, e poi, alla luce di fiaccole e candele, il prete officiava la messa.

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Altare religioso di Sant’Elmo o Sant’Erasmo.

La grande apertura rivolta ad oriente della grotta, sembra, se vista da Alghero nelle belle giornate, un grande occhio che si si apre dritto verso il cuore di Capo Caccia. Il grande ingresso verso il sole che sorge, insieme al colore verde, alle grandi e mute stalagmiti ed alla discesa verso le profondità della Terra, suggerisce un senso di sacralità, quasi un tempio di roccia che collega il mondo della luce con quello del buio.

Poco più giù dell’altare, la grande caverna si restringe in un passaggio scivoloso tra colonne e tante enormi stalagmiti affiancate. Come già scrissero illustri visitatori, come Enrico Costa verso fine 800, sembrano, nella forma e nel colore, alti cipressi.

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“Cipressi”

Oltre questo punto dovemmo accendere le nostre deboli torce. Il percorso proseguiva su un pendio terroso e ripido, ma trovammo, fissata ad un masso, una robusta cima spessa due dita. Sembrava fradicia di umidità, ma all’interno aveva un’anima di acciaio. Ci fidammo e continuammo a scendere aiutandoci con questa corda portata li da chissà quali esploratori. La grotta scendeva e si restringeva tra massi disposti in modo disordinato e con stabilità precaria, come se questo tratto fosse il risultato di una grande frana avvenuta in passato. Strisciando sotto ad un masso, in uno stretto passaggio, mi accorsi che il terriccio sotto di me era disseminato di tanti piccoli cocci. Erano frammenti di una ceramica nera e grossolana (nuragica) insieme a molti altri, rossi e decorati da tante piccole incisure regolari. Non sapevo, allora, che si trattava di ceramica del Neolitico antico e che quei cocci, vecchi di 8000 anni ed unici in Sardegna, erano stati probabilmente incisi con gli aculei spinosi di una conchiglia a forma di cuore (Cardium sp.).

Scendemmo ancora in angusti passaggi tra enormi massi e Gatto disse di stare attenti perché eravamo arrivati al laghetto terminale della grotta. Ma io non lo vedevo. Poi mi accorsi che mi trovavo ai piedi di un masso, su una piccola spiaggetta larga meno di due metri e che davanti a me c’era l’acqua, trasparentissima ed invisibile. Mi vennero in mente i racconti, probabilmente esagerati, di speleologi che erano annegati perché caduti all’improvviso dentro laghetti di grotta, freddi ed invisibili, senza accorgersi del pericolo. Solo al centro del laghetto, l’acqua diventava profonda e se ne percepiva la colorazione verdastra. Ma bastò lanciare un piccolo sasso per far si che quella che sembrava roccia si increspasse in un orizzonte liquido.

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Laghetto

Assaggiai l’acqua ed era dolce anche se eravamo al livello del mare. Poi salii su una stalagmite tondeggiante, proprio al centro del laghetto, ed accesi varie candele. Era un luogo raccolto e suggestivo, immerso in un profondo silenzio e con un odore indefinibile. Odore di roccia, di umido e forse di ife fungine e di batteri cavernicoli. Scoprirò più tardi che ogni grotta ha un suo particolare e specifico odore.

Alle spalle delle spiaggetta, il grosso masso aveva una parete quasi verticale. E fu Gatto, il più esperto di noi, a dirci di guardare con attenzione sulla superficie del masso. Alla luce delle candele vedevo ben poco (le torce ce le conservavamo per il rientro), ma poi gli occhi iniziarono a riconoscere delle forme geometriche incise su un sottile strato di concrezione. Chi aveva inciso, in tempi lontani, questi graffiti aveva rimosso quel sottile strato concrezionato, fino a scoprire la sottostante roccia compatta e scura. Mi sembrava di riconoscere due omini stilizzati ed anche degli altri segni geometrici che immaginavo come capanne o come recinti per animali. Avevo proprio da poco letto un  libro che avevo preso in prestito nella storica biblioteca dell’Umanitaria, a villa Asfodelo. Era il primo volume della Storia sociale dell’arte, di Arnold Hauser. Ricordavo bene, fresco di lettura, che proprio all’inizio del libro, l’autore scriveva che il passaggio dall’arte dal Paleolitico al Neolitico era il passaggio dal figurativo (gli splendidi animali delle grotte francesi e le scene di caccia) alle forme astratte e stilizzate. Forse io stavo osservando dei graffiti antichissimi, ed uno in particolare era davvero bello: un uomo (una Y rovesciata con due linee per braccia) che mostrava un braccio alzato in segno di saluto e di pace. E capii allora il significato dei cocci, che avevo trovato poco prima, e del luogo. Era un’importante fonte d’acqua dolce, e certamente era un luogo sacro. Forse gli antichi abitanti della Nurra vivevano nell’ingresso della grotta e scendevano fin qui per riempire i vasi di terracotta con l’acqua dolce del laghetto ed eseguire riti propiziatori.

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Graffiti

Solo qualche anno dopo, Ferruccio Zarini ed il Gruppo Speleologico Algherese scoprirono che nel fondo del laghetto c’erano sepolture neolitiche e vasi. 8000 anni fa il livello dell’acqua era oltre 10 metri più basso ed il lago era molto più grande. Allora, dal masso dei graffiti, si scendeva in un pozzo quasi verticale e si raggiungeva una grande camera ricca di stalattiti. In fondo a questo ambiente, ora allagato, iniziava un grande lago molto profondo e che doveva sicuramente apparire sacro e misterioso. Poi il livello del lago (e del mare) è salito nel corso dei millenni fino ad arrivare alla situazione attuale. Ma queste ricostruzioni e le scoperte sono venute dopo. In quel momento, quel piccolo laghetto dava accesso ad enormi ambienti sommersi del tutto inesplorati.

Non ricordo per quanto tempo rimanemmo li, in silenzio. Quasi che la voce umana disturbasse in qualche modo la calma e la penombra del luogo. Solo gli ambienti profondi delle grotte riescono a dare la sensazione di essere al di fuori del tempo e di essere avvolti e protetti dal tiepido ventre della madre Terra.

Poi Gatto ci disse di muoverci. Risalimmo, lasciando le candele accese ad illuminare un laghetto tornato solitario. Ci appendemmo alla corda fradicia d’umidità e ci raggiunse, lontana ed azzurrina, la luce dell’ingresso. La luce calava soffusa come in una notte di luna.

Raggiunto l’inizio della corda, entrammo a sinistra in un buco sospeso sul vuoto. Era il “passaggio Rondello”. E li accedemmo subito in una sala con un pavimento di massi. Sulle pareti lunghe stalattiti che suonavano, tutte diverse, se le si colpiva con la punta delle dita. In alto, una larga finestra di roccia era ostruita da due massi che sembravano in bilico. Tra i massi filtrava una debole e spettrale luce azzurrina. Le stalattiti erano tappezzate di infinite goccioline che, alla luce delle torce, diventavano scintillanti ed argentate. Anche questo percorso procedeva in discesa. Si scendeva tra passaggi spesso stretti e scivolosi, con qualche pipistrello che svolazzava spaventato. Poi si arrivò ad uno stretto cunicolo che si interrompeva sul vuoto e su un grande e bellissimo salone. Da uno zaino saltò fuori una corda. Gatto, con la maestria del marinaio, la fissò alla roccia, fece molti anelli per poter metterci i piedi e la fece cadere nel vuoto. Scendemmo uno alla volta e con qualche difficoltà, ma poi esplorammo eccitati il grande salone. Era una sala con tante colonne e stalattiti, proprio nel cuore della montagna, e noi eravamo entrati da un piccolo foro nel soffitto. Poi andammo oltre ed ulteriori passaggi, non facili, ci portarono fino ad un laghetto piccolo e poco profondo, ma circondato da una serie infinita di delicatissime concrezioni eccentriche. Sulle volte delle sale che incontravamo erano riportati dei nomi, delle date e altre scritte fatte con il nerofumo delle candele. Ricordo che ricorreva più volte il nome del gruppo speleologico romano.

Dopo molte ore, ed a torce del tutto scariche, tornammo indietro, risalimmo il pendio, scavalcammo il cancello ed uscimmo dalla grotta.

Io ero stanco ed inebriato. Un’emozione intensa che riproverò da li a breve con la mia prima immersione subacquea con le bombole (da solo a meno 30 metri di profondità). Avevo scoperto un mondo che non conoscevo. Un mondo che coniugava straordinari aspetti naturalistici con gli antichi segni del passaggio degli uomini.

Da allora sono andato in grotta innumerevoli volte ed ho esplorato anche tante grotte sommerse. Ho girato documentari, ed uno l’ho proprio dedicato interamente alla Grotta Verde ed alle sue straordinarie parti subacquee, con il sito archeologico del Neolitico antico, ma anche con grandi stalattiti e colonne sommerse che creano dei paesaggi assolutamente straordinari che si ritrovano, nel mondo, solo nei famosi cenotes messicani. Ho visto tante grotte, ma quella prima esperienza di ragazzo, rimarrà sempre nella mia memoria.

Usciti all’aria libera era ormai pomeriggio inoltrato. Era impossibile tornare ad Alghero in autobus perché c’era una sola corsa giornaliera. Perciò camminammo e facemmo autostop.

Era ormai notte fonda quanto, tutto imbrattato di argilla rossa, arrivai a casa. Ma mi sembrava di essere ancora laggiù, vicino al laghetto, e di vedere ancora le candele che avevamo acceso e che lentamente si consumavano. E mi immaginavo l’omino con la mano alzata che ritrovava il buio profondo della sua grotta.

Roberto Barbieri

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