Pesca del corallo ad Alghero

Ramo di corallo di Alghero
Ramo di corallo di Alghero

Le prime testimonianze sull’utilizzo del corallo in Sardegna risalgono al V-VI secolo A.C. , periodo nel quale i Fenici e Cartaginesi furono presenti nei loro insediamenti di Tharros, Nora, Sulcis e Karalis. I primi reperti di corallo lavorato sono stati trovati infatti negli scavi delle necropoli di queste antiche città.

L’utilizzo del corallo per la realizzazione di oggetti ornamentali trova una sua testimonianza nella collanina ritrovata a Tharros appartenente alla collezione Chessa, ora esposta nel museo archeologico di Sassari, composta oltre che da grani d’oro e di smalto anche da 7 grani di corallo rosso.

Del periodo romano sono stati trovati pochissimi reperti tra i quali alcuni frammenti ritrovati a Tharros. Alcune immagini di corallo sono presenti negli affreschi di Pompei.

Occorre ricordare che alcuni banchi coralliferi nel mediterraneo erano allora ad una profondità di 8-10 metri ed erano sfruttati dai cosiddetti “urinatores”, gli antichi sommozzatori che in apnea si dedicavano al recupero dei carichi preziosi di navi naufragate.

Dell’epoca medioevale, dopo la caduta dell’Impero Romano non esiste o quasi documentazione attestante questo tipo di pesca.

Occorre arrivare alla metà del 1200 per avere una documentazione certa della pesca del corallo in Alghero e Bosa. Pesca effettuata da mercanti marsigliesi presenti da tempo nell’isola.

Assieme ai marsigliesi compare l’Ingegno, famigerato attrezzo di pesca di probabile origine araba ( engin ) formato da due assi di legno disposte a croce alle quali venivano appese delle reti che con il movimento della barca strappavano i rami di corallo dal fondo. O meglio, quel poco che rimaneva attaccato.

Questa pratica utilizzata da barche a remi equipaggiate con 6-8 persone fu di uso comune sino all’avvento del motore. In seguito fu praticata da naviglio più grande e potente capace di pescare a profondità molto più elevate.

Con l’occasione l’Ingegno subì una prima modifica: le due assi si ridussero a una più grossa, spesso di acciaio, a cui venivano attaccate le reti.

Questo metodo di pesca che definire arcaico è un eufemismo per i gravissimi danni che procurava all’habitat marino subì in Sardegna una prima regolamentazione con la legge regionale del 1979 i cui dettagli riprenderemo più avanti.

I marsigliesi continuarono a pescare sui banchi corallini della costa bosana-algherese per molti decenni anche dopo l’avvento degli aragonesi che, con la battaglia di Porto Conte del 1353, conquistarono Alghero.

Gli aragonesi capirono subito l’importanza di Alghero e la sua vicinanza ai banchi corallini. Nel 1355 il re Pietro IV inviò ad Alghero il nuovo emblema nuovo emblema

con le quattro barre rosse d’Aragona e, non a caso, un ramo di corallo.

Con ordine reale del 1375, per proteggere e incentivare la pesca del corallo, oltre alle numerose franchigie ottenute nel 1355, esentò gli abitanti di Alghero dal pagamento della tassa sul corallo ( 20 % del pescato cui erano viceversa obbligati tutti gli altri corallari non catalani).

Ma il provvedimento che fece della città il punto di riferimento della costa occidentale fu quello emanato nel 1384 quando si stabilì che tutte le barche che operavano tra Capo Pecora e l’Asinara dovessero fare scalo ad Alghero. Privilegi che Alghero difese strenuamente nei secoli successivi.

Il numero delle barche coralline presenti in Alghero alla fine del 1300 erano almeno una trentina ed erano finanziate sia da marsigliesi sia da mercanti catalani e algheresi.

La lavorazione del prodotto veniva prevalentemente effettuata nei laboratori di Marsiglia e, in misura molto minore, della stessa Alghero dove si erano trasferiti alcuni artigiani marsigliesi.

Occorre precisare che l’interesse alla lavorazione del corallo non fu mai ritenuta strategica dagli algheresi, anche per la miopia dei governanti catalani che preferirono privilegiare l’aspetto fiscale immediato derivante dalle tasse sul pescato.

Una rinuncia quindi che privò Alghero, dove si pescava corallo di altissima qualità, dello straordinario valore aggiunto che la manifattura viceversa creava.

Una economia quindi che si può definire di taglio coloniale che addirittura peggiorò a partire da metà del ‘500 con l’arrivo di nuovi protagonisti (campani e siciliani) che sostituirono in larga misura i pescatori e gli uomini d’affari locali. La manifattura venne localizzata prevalentemente a Torre del Greco e Trapani.

Il Numero di barche presenti nell’isola, dotate di equipaggi di 6-8 marinai, crebbe nel tempo sino a raggiungere nel XVI e XVII secolo punte di 300 unità.

Nel primo trentennio sabaudo (1720-1750) Le Coralline che facevano riferimento ad Alghero, prevalentemente campane con qualche sparuta presenza ligure, hanno raggiunto nel 1750 punte di 435 unità così come risulta nei documenti dell’archivio comunale. In questi documenti compaiono anche i nomi dei mercanti cui facevano riferimento le barche. In particolare si distinguono Serafino di Candia e Santo Balero rispettivamente con 245 e 108 coralline.

Nella seconda metà del ‘700 la media delle presenze si mantenne intorno alle 250 unità con tendenza alla diminuzione per la scoperta di nuovi banchi nelle coste africane.

Come si è accennato in precedenza la pesca del corallo, la sua lavorazione era ormai da un paio di secoli appannaggio prevalentemente dei campani. Non sfuggì tuttavia ai nuovi regnanti piemontesi la necessità di trattenere in Sardegna almeno parte della ricchezza generata dalla manifattura che, come riportato prima, era fatta al di fuori dell’isola.

In particolare si pensò alla costituzione di Una Compagnia Reale per la pesca del corallo incentivando anche il trasferimento definitivo di marinai campani ad Alghero che avrebbero dovuto insegnare il mestiere ai locali. Un tentativo concreto fu fatto dal ricco algherese, il marchese Todde, che a sue spese finanziò qualche barca e tentò anche il coinvolgimento di altri benestanti locali ma con scarso successo. Mancato coinvolgimento che fece venir meno l’iniziativa.

La manifattura continuava ad essere effettuata fuori dall’isola ed in particolare, oltre a Torre del Greco e Trapani, anche a Livorno dove gli ebrei operavano quasi in monopolio. Anche la Toscana infatti era fortemente impegnata nella pesca del corallo che effettuava in particolare nelle ricche coste della Corsica con diverse decine di barche.

L’interesse dei toscani si era manifestato dai primi del ‘600 quando si favorì il trasferimento da Genova di diverse famiglie di lavoratori del corallo e via via crebbe sino a fare di Livorno un centro con decine di laboratori in attività. Questo a scapito di Marsiglia che si avviò ad un lento ma definitivo declino.

Ad inizio ‘800 il corallo registrava un crescente successo in tutto il mondo. Il corallo sardo era considerato il migliore del bacino del mediterraneo al punto che nacquero non poche vertenze per la ricorrente pratica di mischiare il prodotto isolano con quello pescato nelle coste africane di minore qualità.

La presenza di molte barche nelle coste tunisine e algerine, grazie alla scoperta di molti banchi ricchi di corallo, non distolse comunque, se non in misura limitata, l’interesse verso la Sardegna.

Il problema semmai nacque dal pericolo che veniva da quelle barche, con destinazione Africa, che facevano scalo nei porti sardi e potevano essere portatrici di malattie infettive presenti in quel continente.

Nell’attività di controllo un ruolo importante fu svolto dalle torri costiere impegnate non solo ad individuare navi corsare ma anche altro naviglio in avvicinamento per il quale scattavano una serie di controlli sanitari preventivi prima di un’eventuale sbarco.

Nel 1818 Alghero registra una presenza di 170 armatori, di cui 67 “sardi”. Un esame dei loro cognomi evidenziava subito la loro origine campana. Si trattava di stranieri che, spesso per ragioni fiscali, avevano preso la residenza algherese.

Nel decennio 1837-1847 Alghero registrava una presenza media di circa 140 barche di cui una ventina provenienti dalla Toscana.

Con l’unità d’Italia spariscono i vantaggi fiscali dei “sardi” rispetto agli altri. I campani sono quelli che trassero profitto dalla nuova normativa e anche dall’utilizzo dei primi battelli a vapore.

Nel 1866 pescano nelle acque di Alghero 178 barche.

Nel 1882, come riporta il prof. Corrado Parone dell’Università di Cagliari, le barche presenti in Alghero sono una settantina per la defezione dei napoletani presenti con sole 30 barche rispetto alle 150 degli anni precedenti. Ciò era dovuto alla scoperta di importanti banchi a Sciacca.

Il prof. Parone, nella sua visita ad Alghero, non manca di sottolineare il maggiore tonnellaggio delle barche torresi che si spingevano anche a circa 20 miglia dalla costa rispetto a quelle locali che non andavano oltre le 10.

Il Parone registrava inoltre la storica mancanza in città di laboratori per la lavorazione del corallo che veniva esportato a Livorno, Genova e naturalmente a Torre del Greco.

Alla fine degli anni ’80 irrompe nel mercato il corallo giapponese che unitamente ai forti quantitativi pescati nei nuovi banchi scoperti a Sciacca (di qualità comunque scadente) sconvolgono tutte le condizioni sulle quali si reggeva questa secolare attività.

Di fatto si creano le condizioni per cui l’offerta supera di molto la domanda di corallo.

Dal 1884 al 1900 il numero di barche dedite alla pesca in Italia non supera la media di 150 unità rispetto all’eccezionale record del 1880 di circa 1.800 unità.

Anche la Sardegna subisce un tracollo. Nel 1900 nella provincia di Cagliari risultano impegnati solo 45 persone rispetto alle oltre 500 di 20 anni prima.

A Torre del Greco, Genova e Livorno dove si lavora la stragrande maggioranza del corallo in Europa, sono praticamente inondate dal prodotto giapponese. Nel solo 1901 ne furono lavorati circa 150 q.li.

Nello stesso periodo i banchi di Sciacca, veri e propri giacimenti di corallo morto di scarsa qualità, producevano centinaia di q.li all’anno e contribuirono non poco all’assorbimento delle richieste dei mercati orientali (Russia, Cina e India in particolare) diventate enormi.

Il numero di barche presenti nel mediterraneo dal 1900 al 1914 non superavano una media di 100 unità.

Dopo l’interruzione forzata della prima guerra mondiale, in Sardegna ci fu una lenta ripresa della pesca.

Alghero raggiunse il massimo numero di barche presenti (tutte campane) nel 1942 con poco più di 20 unità.

Un numero anche inferiore sono presenti nell’immediato dopo guerra.

Agli inizi degli anni ’50 alle poche barche campane che frequentano il porto di Alghero si aggiungono tre imbarcazioni armate da pescatori locali. Si tratta di Michele Lauro, esperto marinaio che al

Michele Lauro
La barca Michele Lauro

comando di navi medio-piccole ha navigato in lungo e in largo il Mediterraneo, della Cooperativa pescatori con il comandante Baldassarre Bilardi e dell’intraprendente Antonio Ignazio Spano.

Una iniziativa coraggiosa che non raggiunse però i risultati sperati per i bassi prezzi riconosciuti al corallo pescato che come, come detto in precedenza, traeva i maggiori utili dalla lavorazione effettuata a Torre del Greco. La città campana produceva anche le migliori attrezzature per la pesca che riservava spesso esclusivamente ai suoi concittadini.

Nel 1959 la Regione Sardegna decide di aprire in Alghero una Scuola d’Arte.

Il pittore Filippo Figari, allora direttore dell’Istituto d’Arte di Sassari, fu inviato a Torre del Greco che, dopo la chiusura definitiva dei laboratori di Livorno e Genova, era praticamente l’unico vero centro di lavorazione del corallo.

Visita ovviamente decisa per capire i fondamentali di quell’attività nell’intento di trasferire in Alghero, almeno in parte, la manifattura del corallo pescato nelle sue coste. Negli anni sessanta, grazie anche a questa iniziativa, si formò un buon numero di artigiani che lavorano il corallo. Ricordiamo tra gli altri Verdina e Ottavio Pensè, i fratelli Marogna, Nicola Ferraro, Franco Marras e Gianvittorio Vacca.

REGOLAMENTO DELLA PESCA DEL CORALLO

Alla Regione Sardegna, con legge costituzionale del 1948, vengono trasferite le competenze in materia di artigianato e pesca. Solo nel 1965, dopo una serie di controversie con il potere centrale, la Regione prende possesso di queste competenze.

Devono passare altri 14 anni perché si parli finalmente della regolamentazione della pesca del corallo e soprattutto dell’assoluta necessità di proibire l’uso dell’Ingegno, il famigerato metodo di pesca cui si è parlato nelle pagine precedenti.

In Alghero, oltre agli artigiani e pescatori, si distinse tra le forze politiche favorevoli il combattivo segretario cittadino del PSI Nino Monti che tappezzò la città di manifesti con la richiesta dell’abolizione di questo arcaico e dannoso attrezzo.

Con legge regionale 59 del 1979 si giunse finalmente al varo della normativa.

Bisogna ammettere che non si raggiunsero tutti gli obiettivi. Gli inevitabili compromessi non consentirono l’abolizione dell’uso dell’Ingegno ma ne fu ridotta la dimensione ad un massimo di 3 metri e a uno il numero consentito per barca.

La pesca fu inoltre vietata tra Capo Marraggiu e Punta Falcone.

Questo provvedimento determinò di fatto la scomparsa dei “ciains” (così venivano chiamati i pescatori campani) che avevano frequentato per 4 secoli Alghero.

Passeranno altri 10 anni per legiferare il definitivo divieto all’uso dell’Ingegno in Sardegna. Come si vede per i governanti sardi non c’era fretta.

L’unico attrezzo consentito è la piccozza. La pesca del corallo diventava esclusiva prerogativa dei subacquei.

 

Condividi sui social