Una nuvola tinta di rosa

Una nuvola tinta di rosa©

di Alessandro Lo Curto

Ero finito ad Alghero per puro caso: l’aeroplano su cui viaggiavo era diretto a Olbia, dove mi stavo recando per un impegno di lavoro per conto di una società immobiliare svizzera. Là mi sarei dovuto incontrare con un rappresentante delle proprietà di un magnate arabo e lo scopo del mio viaggio era l’acquisto di una prestigiosa villa sulla costa smeralda. Non era ovviamente un mio investimento ma della società che mi aveva ingaggiato. Ero stato inviato sull’isola in qualità di commesso viaggiatore e, per finalizzare gli accordi già presi, la società mi aveva affidato una sofisticata ventiquattrore colma di banconote da cinquecento euro. La transazione sarebbe ufficialmente avvenuta con un versamento di poche centinaia di migliaia di euro per aggirare il fisco italiano. A latere c’erano i quattro milioni che avevo nella valigetta: dodici mazzetti da seicentosessantasei banconote ciascuno. Se avessi saputo leggere quel numero come un simbolo diabolico, forse avrei potuto coglierne un presagio sinistro.

Quel tardo pomeriggio di gennaio sulla costa orientale sarda imperversava un forte temporale e l’aeroplano su cui viaggiavo era inutilmente rimasto in attesa che il maltempo passasse, orbitando a media quota una quindicina di miglia a nordest dell’isola di Tavolara. Sul display del monitor, inserito nel poggiatesta del sedile di fronte al mio, era riprodotta la rotta sovrapposta alla mappa dell’area in cui si trovava il velivolo. Dopo una mezz’ora, il comandante aveva annunciato l’intenzione di divergere ad Alghero, dove le condizioni meteorologiche consentivano l’atterraggio in sicurezza. Il sorvolo del versante settentrionale della Sardegna era avvenuto a quota relativamente bassa. Le luci emesse dalla sporadica urbanizzazione nell’estesa natura costiera, avvolta dal sopraggiungere dell’oscurità serale, si intravedevano di tanto in tanto sotto la spessa coltre di nubi. Soltanto in prossimità del promontorio su cui si ergeva Castelsardo, libero da nuvole, attraverso il finestrino e con l’ausilio della mappa visualizzata sullo schermo, avevo saputo identificare Porto Torres, con le sue elevate ciminiere, sormontate da luci segnaletiche rosse che lampeggiavano. Poco dopo l’aeroplano aveva virato a sinistra per incominciare la procedura di avvicinamento e atterraggio sulla pista di Alghero.

Una volta sbarcati, un rappresentante della compagnia aerea aveva accolto tutti i passeggeri, me incluso, spiegando che a quell’ora e con così scarso preavviso era stato impossibile organizzare un trasferimento a Olbia con dei pullman e aveva quindi aggiunto:

“I passeggeri che non intendono proseguire per Olbia sono pregati di avvisarmi; per tutti gli altri abbiamo predisposto delle sistemazioni in vari alberghi della città, a spese della compagnia. Domattina alle 8:00 alcune navette vi preleveranno per riportarvi qui in aeroporto, da dove poi con due pullman sarete trasferiti a Olbia. Per chi non fosse della zona, il tragitto non dovrebbe superare le due ore. Naturalmente, in hotel potrete usufruire gratuitamente della cena e della prima colazione. Appena chi deve ritirare i bagagli imbarcati sarà pronto, recatevi all’uscita, lato sinistro del terminal, dove ci sono già le navette per portarvi ai vari alberghi”.

Tra i passeggeri ero stato l’unico a non manifestare inutili lamentele e proteste, poichè avevo ritenuto ragionevole la proposta avanzata dal rapprsentante della compagnia aerea. Del resto, per quanto mi riguardava, il mio appuntamento per la consegna del denaro era fissato all’ora di cena del giorno dopo e, quindi, avevo ampio margine per giungere a Olbia per tempo. Nel giro di venti minuti ero a bordo di un minibus che mi aveva condotto, insieme ad altre otto persone, all’hotel designato. Era una struttura moderna, prospiciente dei giardini pubblici molto curati e non distante dal porto, da cui eravamo transitati per raggiungere l’albergo.

Nonostante fosse pieno inverno, la serata era sorprendentemente mite e un lieve vento secco attenuava l’umidità. Non essendo mai stato ad Alghero, approfittando della temperatura gradevole, dopocena ero salito in camera, avevo preso il soprabito ed ero uscito. Ovviamente avevo portato con me la valigetta di cui ero integralmente responsabile e da cui non mi ero mai separato da quando, sette ore prima, mi era stata consegnata all’aeroporto di Zurigo.

Dalla gentile signorina della reception mi ero fatto dare una piccola mappa della città e avevo cominciato una breve visita, costeggiando i giardini pubblici uno dei cui vertici era in prossimità della massiccia Torre di Porta terra. L’antica struttura tondeggiante si elevava illuminata da luci calde, emesse da potenti fari che la rendevano molto suggestiva. Avevo stabilito di percorrere una via lastricata che conduceva al cuore della città; sebbene avessi incontrato pochissime persone, non mi ero posto alcun problema a girovagare con quattro milioni di euro in zone anche poco frequentate. In effetti, ero il solo a sapere il contenuto di quell’anonima ventiquattrore che stringevo nella mano destra. Inoltre, mi trovavo in una tranquilla cittadina, non in una qualunque metropoli dove la microcriminalità è ormai endemica. Infine, non era nemmeno prevedibile che arrivassi ad Alghero anzichè a Olbia. Tuttavia, come avrei presto scoperto, non ero il solo a sapere dove fossi atterrato.

Il suono dei miei passi riecheggiava nel silenzio della pavimentazione di pietra di via Columbano. L’avevo percorsa nella sua interezza, ammirando lo stile architettonico di alcuni edifici che, come avrei appreso poco dopo, aveva una forte impronta catalana. La stretta strada terminava perpendicolarmente a un vicolo, ugualmente lastricato; avevo svoltato a destra e, poche decine di metri più avanti, ero sbucato in una graziosa piazza rettangolare, su cui erano disposti alcuni tavolini di ristoranti e bar. Per beneficiare della tranquillità che caratterizzava sia l’atmosfera della serata, sia il sito in cui ero giunto, avevo preso posto sotto un elegante gazebo e ordinato un caffè. Mentre attendevo che mi venisse servito, il mio cellulare aveva incominciato a squillare e avevo subito risposto:

“Buona sera… come le avevo già scritto nel messaggio, l’aereo è atterrato ad Alghero e mi porteranno domattina a Olbia”.

Era l’amministratore delegato della società che mi aveva inviato in Sardegna, preoccupato del fatto che non fossi a destinazione. Aveva quindi insistito perchè l’indomani non viaggiassi con il pullman organizzato dalla compagnia aerea.

“Va bene: se ritiene più sicuro che raggiunga Olbia con un taxi, nessun problema: appena rientrerò in hotel, ne farò prenotare uno per domattina”.

Quando aveva compreso che in quel momento non fossi in albergo, la sua reazione era stata quanto meno sorprendente ma avevo ritenuto opportuno difendere il mio libero arbitrio, ribattendo:

“Non vedo quali rischi potrei correre a fare due passi in questa magnifica cittadina dove nessuno si sarebbe aspettato che sarei arrivato”.

Riferendomi alla valigetta di cui mi aveva chiesto delucidazioni, avevo precisato:

“Certo, l’ho sempre tenuta con me e anche in questo momento è stretta tra le dita della mia mano”.

Prima di chiudere la telefonata, mi aveva ribadito che ero direttamente responsabile del suo contenuto e mi aveva raccomandato di adottare la massima cautela, evitando rischi, sebbene, personalmente, non ne intravedessi.

Bevuto il caffè e pagato il dovuto, avevo attraversato una seconda piazza contigua a quella dove avevo sostato; sulla targa di maiolica incastonata nel muro avevo letto che si chiamava Plaça del Pou Vell. Incuriosito dalla scritta in spagnolo, avevo eseguito una veloce ricerca con lo smartphone, scoprendo che molte vie di Alghero avevano mantenuto la vecchia denominazione assegnata dalla dominazione spagnola. Poco oltre, sulla sinistra, sorgeva la cattedrale dell’Immacolata concezione. Si trattava di una chiesa di notevoli dimensioni la cui facciata in stile neoclassico presentava quattro altissime colonne che sorreggevano un ampio timpano triangolare, arricchito da alcune decorazioni. Dalla mia posizione non avevo notato ciò che avrei visto poco dopo, quando mi ero spostato verso il mare: sul retro della cattedrale spiccava un’elevata torre campanaria. Era caratterizzata da un’appariscente guglia piramidale, rivestita da coloratissime maioliche che richiamavano lo stile della Catalogna.

Ripresa la passeggiata serale, avevo imboccato Carrer del Fossar che mi aveva condotto a una breve scalinata per accedere ai bastioni. Non avevo resistito all’attrazione del mare e mi ero affacciato: nonostante l’oscurità, diversi metri più in basso, ero riuscito a distinguere una lunga scogliera, su cui si infrangevano le onde, già increspate dal vento che le accompagnava.

Avevo proseguito lasciandomi il Mediterraneo a sinistra, con l’intento di raggiungere il porto. Il camminamento conduceva alla Torre della polveriera che, insieme alla vicina Torre di Sant’Elmo, dominava l’area portuale. Da quella posizione e con il silenzio che perpetuava, il tintinnio, prodotto dall’intermittente contatto tra gli alberi delle barche ormeggiate e i cavi metallici per issare le vele, sembrava scandire il tempo a un ritmo svincolato da ogni convenzione.

Avevo deciso di tornare indietro, invertendo direzione, per rimanere sui bastioni e raggiungere la parte opposta della città. Lasciandomi il mare a destra, avevo visto a circa mezzo chilometro un altro torrione; la luce dei lampioni illuminava fiocamente quel tratto del largo camminamento che dovevo percorrere e proprio questa semioscurità conferiva alle possenti mura un’atmosfera surreale, sospesa nel tempo. Giunto sotto la Torre di San Giacomo, avevo notato che, a differenza delle altre viste prima, non presentava una pianta circolare, bensì ottagonale e sembrava che le sue fondamenta poggiassero direttamente sul mare sottostante. Attratto ancora dall’incessante rumore delle onde che si frangevano sugli scogli o direttamente sulle mura difensive, mi ero affacciato per ammirare l’imponenza della natura e la perseveranza delle costruzioni dell’uomo che la contrastavano.

Quando mi ero voltato per raggiungere la torre successiva, in lontananza avevo notato la figura di un uomo che camminava a passo svelto nella mia direzione. Impugnava qualcosa di piccole dimensioni e, solo quando la luce di un provvidenziale lampione lo aveva meglio illuminato, avevo riconosciuto che l’oggetto che aveva in mano era una pistola!

Non mi ero nemmeno domandato se quell’individuo armato fosse interessato a me e alla valigetta: il mio istinto mi aveva fatto agire molto rapidamente. Mi ero girato e avevo incominciato a camminare, quasi a correre, dirigendomi verso il porto, perchè ero certo che se l’avessi raggiunto ci sarebbe stata della gente. Ero a metà strada tra la torre ottagonale che avevo lasciato alle spalle e quelle che proteggevano l’area portuale quando un’altra ombra, circa duecento metri di fronte a me, era apparsa per sbarrarmi il camminamento.

Le uniche vie di fuga, tralasciando l’impensabile possibilità di scavalcare il parapetto e lasciarmi rovinosamente cadere sugli scogli, erano rappresentate da una breve scalinata sulla destra, meno di cento metri più avanti e un piccolo vicolo, sempre a destra, che avevo superato di non più di cinquanta metri.

Sapevo bene che tornando indietro sarei andato incontro al mio inseguitore armato, mentre se avessi proseguito per raggiungere la scalinata non ero sicuro di riuscire a precedere il secondo uomo. Anche quest’ultimo aveva in mano qualcosa di luccicante, forse un coltello.

La mia decisione aveva richiesto una frazione di secondo: avevo incominciato a correre speditamente verso le scale. Mancavano poche decine di metri ed ero in netto vantaggio rispetto all’aggressore con il coltello che proveniva dal porto; pensavo di avercela fatta: una volta scesa la scalinata, avrei certamente incontrato delle persone cui avrei potuto chiedere aiuto. Proprio dalla via di fuga che avevo prescelto, all’improvviso era comparso un terzo individuo che, da quella distanza ridotta, avevo visto bene. Era molto alto e robusto, dai capelli biondi di media lunghezza. Gli zigomi alti erano sovrastati da due occhi color ghiaccio. Tra le mani aveva una barra di metallo che aveva iniziato a picchiettare sulla pavimentazione di pietra.

Non avevo più scampo. In quei secondi in cui ero rimasto in attesa degli eventi, avevo inconsciamente fatto alcuni passi all’indietro, appropinquandomi al parapetto dei bastioni. Mi aveva improvvisamente investito il vento ascensionale proveniente dalla base delle mura difensive; il fruscio dell’aria copriva i passi dei malintenzionati e il rumore metallico della barra lasciata strusciare al suolo.

Il tempo si era dilatato. I tre uomini si erano avvicinati, sempre più minacciosi e quello che impugnava il coltello, con evidente accento russo, mi aveva intimato:

“La valigetta. Lasciala a terra e allontanati!”

Sapevo bene di essere responsabile di quella disavventura in cui mi ero cacciato e che mai sarei stato in grado di ripagare alla società il prezioso contenuto della ventiquattrore. Così avevo giocato la mia unica carta: temporeggiare, nella speranza che arrivasse qualcuno sui bastioni e che capisse che cosa stava accadendo. Avevo provato a opporre resistenza, affermando:

“Questa valigetta è provvista di un dispositivo localizzatore e sarete rintracciati ovunque”.

Era seguito un attimo di silenzio e poi i rapinatori si erano detti qualcosa in russo. Sembravano perplessi e, così, nel tentativo di incrementare i loro dubbi, avevo insistito con un bluff, precisando:

“È inutile che provate a impossessarvene: se l’apertura della valigetta viene forzata, un dispositivo automatico macchierà in modo indelebile tutte le banconote, come nei bancomat. Io non conosco la combinazione perchè sarà comunicata direttamente al destinatario, una volta avvenuta la consegna. Datemi retta, tornate da dove siete venuti”.

Dovevo essere apparso credibile perchè quello che prima si era rivolto a me aveva sfilato di tasca un cellulare e, comunicato in russo con qualcuno. Alla conclusione della telefonata, aveva sorriso e con uno sguardo d’intesa con gli altri due, si era ulteriormente avvicinato, puntantomi il coltello.

Avrei dovuto rischiare la vita per proteggere quattro milioni di euro che non mi appartenevano ma di cui avrei dovuto rispondere alla società? Il dilemma era durato pochi istanti perchè con un gesto fulmineo il russo che si trovava più vicino a me aveva afferrato la ventiquattrore, tirando per sottrarmela. Istintivamente l’avevo impugnata anche con l’altra mano, opponendo la mia forza a quella dell’energumeno. Nella lotta per la valigetta, ci eravamo pericolosamente avvicinati al parapetto, mentre l’individuo mi minacciava puntandomi la pistola per indurmi a mollarla subito. Poi tutto era accaduto in modo tanto repentino quanto imprevedibile. Le mie forze erano improvvisamente venute a mancare e la ventiquattrore che mi era stata strappata di mano era andata a sbattere violentemente contro il muro che ci separava dal mare. Si era aperta completamente e il suo prezioso contenuto era stato sbalzato fuori, verso l’alto.

Una raffica di vento aveva fatto il resto: le banconote, già sollecitate dall’impatto con il parapetto e dal sobbalzo provocato dall’improvvisa apertura, avevano incominciato a volare ovunque. Io, caduto rovinosamente al suolo, ero rimasto quasi ipnotizzato nel vedere la nuvola tinta di rosa che si dilatava sempre più. Quasi ottomila banconote volteggiavano sopra di noi, elevandosi ulteriormente e coprendo, come fossero i semi lanosi di un gigantesco dente di leone, un’area sempre più vasta: galleggiavano nell’aria per depositarsi sul mare sottostante o, trasportati dal vento, per incanalarsi nella rete di vicoli interni ai bastioni, avvolgendo la guglia policroma del campanile che svettava sopra i tetti del centro storico.

I russi avevano incominciato a imprecare urlando anche frasi incomprensibili nei miei confronti. Impotenti e amareggiati, insieme avevamo assistito a quella scena che rappresentava l’apoteosi della situazione. Avevamo perso tutti: io avrei dovuto, Dio sa come, risarcire la società che mi aveva ingaggiato; i rapinatori avevano vanificato un colpo milionario che si stava sparpagliando sopra di loro. Quello che sembrava il capo aveva distolto la sua attenzione da me, cercando di raccogliere tutte le banconote che poteva; poco dopo anche gli altri due lo avevano imitato e si erano completamente disinteressati a che cosa facessi. Considerando che la mia vita era stata messa in grave pericolo per del denaro che nemmeno mi apparteneva, aveva colto il loro momento di distrazione per rialzarmi e fuggire.

Avevano reagito con ritardo e, pochi istanti dopo, stavo già scendendo i gradini della scalinata, al termine della quale avevo svoltato a sinistra. Sebbene con la coda dell’occhio avessi notato che non mi stavano inseguendo, avevo continuato a correre; percorso quel lungo e tortuoso vicolo, poco più avanti avevo raggiunto un incrocio e, girando a destra, ero tornato alla piazzetta, dove c’era ancora della gente. Ero salvo!

Riprendendo fiato, avevo incominciato a pensare a come presentare la questione alla società che mi aveva inviato in Sardegna. Non era semplice ed ero convinto che avrei pagato a caro prezzo le conseguenze di quella che, di fatto, era stata una mia leggerezza. Rientrato in hotel, avevo fatto una lunga doccia, lasciando che il vapore saturasse il bagno; più riflettevo e più mi convincevo che l’unica cosa da fare fosse comunicare al più presto l’accaduto e sperare nell’improbabile clemenza dell’amministratore delegato. Sebbene l’orario fosse inopportuno, avevo chiamato Zurigo:

“Buona sera e mi scuso per l’ora ma c’è stato un grave inconveniente”.

Gli avevo spiegato con dovizia di particolari l’accaduto e l’epilogo dell’agguato. Era stato ad ascoltarmi senza mai interrompere e, quando avevo finito il mio racconto, ero rimasto in attesa che pronunciasse quello che poteva già rappresentare un verdetto. Dopo un lungo silenzio che mi aveva fatto anche supporre che la comunicazione si fosse interrotta, con voce calma e quasi rassicurante, aveva affermato:

“Mi ascolti bene: lei non è mai stato in Sardegna nè ha mai lavorato per noi”.

Quella frase aveva suscitato la mia spontanea domanda:

“Come? In che senso?”

“Ora le spiego. La sua imprudenza non ha fatto che confermare i sospetti degli agenti dell’Interpol, che hanno architettato l’intera operazione, volta a portare allo scoperto i tentacoli della mafia russa”.

“Non capisco…”

“Mi lasci proseguire e le sarà tutto chiaro. La mia società ha agito per conto della Polizia internazionale che stava indagando sulle connessioni della criminalità russa con alcuni magnati della penisola arabica. Per tale ragione è stata avviata la trattativa che lei avrebbe dovuto concludere a Olbia, dove numerosi agenti erano pronti a intervenire, nel momento in cui fosse avvenuta la consegna della valigetta o la sua probabile e concordata sottrazione da parte dei russi. Questi utlimi l’avrebbero poi consegnata agli arabi che avrebbero quindi ottenuto un doppio profitto, senza cedere l’immobile. Mi ha seguito?”

“Sì, certo. Ma ora che cosa succede? I soldi sono andati comunque completamente persi!”

“Questo non rappresenta assolutamente un problema: si trattava di banconote false”.

“False?”

Dopo un attimo di riflessione, quasi con irritazione avevo esclamato:

“Sono stato trattato alla stregua di una cavia! Perchè non sono stato messo al corrente dell’intera operazione?”

“Semplicemente perchè tutto doveva apparire assolutamente normale. Se lei fosse stato consapevole che nella ventiquattrore non c’era nulla di valore, a Olbia, nel suo albergo o altrove, in risposta alle minacce dei russi che la volevano, l’avrebbe consegnata senza tergiversare. Ciò avrebbe consentito loro di dileguarsi prima che gli agenti della Polizia internazionale potessero intervenire ed intercettarli. In ogni caso, non ha nulla di cui preoccuparsi. L’unico suo dovere sarà rappresentato da una probabile convocazione nella sede dell’Interpol per spiegare l’intera faccenda che, ovviamente, resta coperta dal massimo riserbo. Le suggerisco quindi di rientrare a Zurigo domani stesso”.

Alla conclusione di quella sorprendente telefonata che aveva portato alla luce un piano di cui ero stato tenuto completamente all’oscuro, benchè fossi il protagonista, ero crollato sulla poltrona della mia camera, esausto ma rasserenato.

L’indomani, a bordo dell’aeroplano che mi avrebbe ricondotto in Svizzera, dal finestrino avevo visto dall’alto Alghero; quella splendida cittadina era stata per me teatro di un susseguirsi di emozioni che mai avrei dimenticato. Il velivolo, sorvolata la città, aveva virato a destra, sul mare, regalandomi la vista dell’intero golfo che, a ovest, era dominato dall’imponente Capo Caccia, sulla cui sommità era ben visibile un faro. Proprio quella struttura bianca sembrava voler essere un occhio che vegliava costantemente sull’intera zona e, in quel preciso momento, avevo avuto il chiaro presentimento, quasi una certezza, che ci sarei presto tornato. Volevo riprendere a vivere quelle gradevoli sensazioni che erano state bruscamente interrotte quando mi era capitata la drammatica disavventura. Sicuramente Alghero meritava di essere ricordata per la sua atmosfera unica e confidavo che una seconda visita, questa volta non connessa al maledetto Dio denaro, mi avrebbe riempito l’anima di immagini, suoni e profumi indelebili.

 

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