La camera a gas

di Sardonicus

Le tradizioni algheresi per quanto concerne l’ospitalità non dovevano essere delle migliori, come ben sa Alberto La Marmora che descrive non senza tocchi umoristici un suo pernottamento ad Alghero senza un invito a cena nonostante lettere di presentazione. In realtà il parroco gli disse che era invitato dal governatore, ma quando vi si recò non fu messo alla porta solo perché non fu fatto entrare.

Forse anticamente Alghero aveva qualche “ustera”, parola probabilmente  derivante dal catalano Hostal, generalmente situata in qualche grande cortile con magazzini, dove era possibile pernottare, mangiare e far accudire le cavalcature. La parola passò poi ad indicare ampi cortili, come quello di San Francesco che ospitava i lupetti.

Ad Alghero, prima che diventasse Riviera del Corallo. si ricorda solo l’Albergo Italia, nella piazzetta antistante l’accesso al chiosco di San Francesco. Aveva probabilmente non più di cinque o sei stanze. Prese il suo posto l’Hotel San Francesco, sia pure con ingresso da via Ambrogio Machin.
In un secondo tempo Gianvittorio Vacca restaurerà in una ustera l’albergo “Al Leon d’Oro”,  in via Minerva, molto curato ed elegante, con il buon gusto e l’inventiva dell’artista, che poi in un altra ustera metterà su La Bardana, al Parau de Pons, in via Zaccaria, forse il primo locale notturno di Alghero. Mi correggo! Il primo locale notturno è stato lo Wiskey a Gogo, sempre di Gianvittorio,
arredato con quadri fatti di soli chiodi, in via Catalogna davanti alla fermata degli autobus.

Non ho personalmente notizia di antichi ristoranti o trattorie, ricordo solo che mia zia, nata nei primi del novecento, mi parlava di un locale nella salita di Santa Maria dove servivano “Las Catoras”. Si trattava di una pasta grossolanamente tirata a mano ed altrettanto grossolanamente tagliata e servita con un sugo di pomodoro, che comunque gli avventori “mangiavano volentieri e ne erano contenti”.  Altri le ricordano come crostas. Altro che spaghetti ai ricci, mai abbastanza condannati!
Negli anni sessanta c’era solo Bagassedda ed in Piazza Civica, in un fornice, l’abitazione di Cià Catarina, che cucinava con un piccolo fornello il pesce pescato dal marito, spesso agliate con generose aggiunte di aglio e peperoncino. L’ambiente era quel che si dice familiare e spesso vi finivano gli studenti che dopo una parca cena casalinga, due vasche ai giardini o alla passeggiata, due soste da Buttighetta finivano da Cia’ Catarina. Questa pare che alla richiesta di prammatica: “Cia Catarì, i cosa i ha avui” rispondesse costantemente: “Cambas de “cucciu””, per poi dirigersi ai fornelli, che poi erano un unico fornellino.
In via Cagliari c’era anche il locale di Gatto Nero, piuttosto un bar ma dove la signora si esibiva ai fornelli preparando pesce.

Il bar elegante era appunto Buttighetta, dove avveniva una scrematura dei clienti anche grazie alla burbera e sarcastica accoglienza del cameriere, che non mancava di commentare con “Asciacat” (avvezzo sin da bambino) ogni richiesta che non fosse di un caffé  proveniente da un nuovo, e quindi per definizione non gradito, avventore. Altro che Gemütlichkeit, quella ricerca nei locali tedeschi di una atmosfera accogliente, calda e quasi familiare. I bar era ritrovi di persone dello stesso ceto sociale dedite al più crudele pettegolezzo ed al più spietato sfottò.

Solo in seguito saranno aperti La Lucciola e Chez Michel.

Un altro bar era in Piazza Civica prima di Porto Salve, apriva prestissimo al mattino ed era frequentato da pescatori e operatori ecologici, allora sac a l’aschena i trumbetta.

L’”ospitalità” algherese era quindi demandata a las tavenas, quasi luoghi di perdizione come testimonia il detto: Ascura chi te lu fil a la tavena, locali dove le spose inviavano i figli a recuperare i padri ritardatari perché ubriachi, anche a rischio di qualche correzione corporale. Il carattere violento degli avvinazzati era poi scusato dalle moglie con il detto: “ Già es una oma bo’, vi mal suffri”.  Si narra di un lavoratore che spese tutta la paga settimanale nella tavena e la domenica sera esclamò soddisfatto: “ Con so cunsurat iò asci sighi totta la famiria mia”, famiglia lasciata a patire la fame senza il becco di un quattrino.

La più celebre era la camera a gas, ma sarebbe forse più corretto di parlare di Camere a Gas. Erano almeno due, una in Via Columbano, che poi cambiò il nome in Tre Coltelli e l’altra in via Minerva. Il nome era dato dalla cappa di fumo che copriva il soffitto o, come recita Rimbaud nella Oraison du soir,  gli avventori erano seduti “sous l’air gonflé d’impalpables voilures”. Si sentiva un odore fortissimo di vino e di tabacco, solitamente alfa e trinciato forte. Erano frequentate da habitués molto pittoreschi e si beveva solo il vino dell’annata, accompagnato da fave bollite molto salate (pe acciuppà) e uova bollite, sardine salate e nel periodo di Natale e forse anche Pasqua peuccius d’engioni e anche di porcetto, oltre a piatti improvvisati, o per meglio dire avanzi, portati dagli avventori: caragol, resti di polpo bruscat da usare come esca, agliate di scritta, frisciura arrustu, ,etc.  Nella tavena della Zangara all’angolo di via Cagliari con via Mazzini si potevano anche degustare anguille arrosto.
A volte erano frequentate anche da giovani studenti più che altro come curiosi e che portavano anche se raramente le ragazze. I visitatori esterni erano simpaticamente tollerati in una atmosfera caratterizzata da una generale allegria ( gente di malumore vi avrebbe avuto poca vita)  interrotta solo dall’eccessivo appesantimento del murendu. Tra gli habitués si ricorda Topo, Pino Prubunaru o Pino d’Olbia, Giusè La Timpa, Paolo Cita, Paolo Comicista, Angelo La Mindora e spero mi perdonino quelli che ho dimenticato.
La fama di quella di Via Columbano era assicurata dalla musica e dai canti. L’animatore era ciù Mario La Suara e la sua straordinaria batteria. La grancassa era costituita da una valigia, il charleston da un bauletto, ad un filo erano appese vari tipi di zappe, rampini e la stretta zappa detta “lu dent”, usata per zappettare il grano. Come spazzole erano usati dei pennelli ed un’altra zappa con del fil di ferro serviva come pedale per battere sulla grancassa. Furono anche visti rotondi fustini di dixan.  Tore Fichiocca suonava molto bene il mandolino e Pino d’Olbia la fisarmonica. Gli altri accompagnavano sbattendo cucchiai ed altri oggetti rumorosi e qualche volta Pino Cicciu del Sel si esibiva con la chitarra.
Una volta all’anno si teneva il festival di Sanremo. La cinepresa era la bicicletta rovesciata di ciù Mario. I cantanti erano Mengiamarriga, Gnafel,  Aspedito, Andriucciu Prubunaru ed altri. Famosa l’edizione vinta da Andriucciu cantando in modo straziante  “Mai, mai, mai ti lascio” tenendo ben stretta una bottiglia di Maristella.
Quando iniziò il turismo Agustì Mengiamarriga, cui mancava una gamba, che come scherzosamente diceva era stata prima imputata e quindi condannata,  si divertiva a sedersi per terra fuori della Camera a Gas. con davanti un piattino. Una scapellata al passaggio dei turisti ed il gioco era fatto. Rientrava ed invitava gli amici a consumare, illico et immediate, i pur magri incassi
Non bisogna dimenticare la tavena della Parrochia in Vicolo Buragna se possibile ancor più minimalista, con travi di legno sopra blocchetti come base per le botti, e quella di Pasqualino Manca in via Minerva, dove le botticelle erano collocate al primo piano per cui non era possibile strusciarsi per cancellare la cifra o la quantità della consumazione solitamente segnata col gesso sulle stesse botti.
Il vino troppo spunto era reso bevibile con aggiunta di gazzosa, il famoso “tres qualts y una gazzosa” adesso diventata spritz.
A novembre, non appena il pirizzoru era pronto aprivano anche altri locali temporanei, riconoscibili, come in altre parti d’Italia, da una frasca, Le comitive facevano un lungo giro per provarli tutti ed alla fine il giudizio unanime era che il migliore, come sempre, era quello della Zangara.

La lista completa rischia di essere lunga, dovrebbe includere quella dei burinalgius a las Quatra Cuntunaras, quella di Mamuntanas, quella di Piscucrù e i dimenticati anche questa volta ci perdonino.
Alcuni frequentatori facevano parte del paesaggio notturno anche fuori dalle tavenas.
Tozzino, il manager dei bagni del porto, si metteva in un angolo e ripeteva all’infinito il solito mantra” “Aricordati che la santa madema ci ha asciacato”. Il tozzo Mussolini dal collo possente appoggiava la testa al muro e scommetteva da bere. Bisognava riuscire a spostargli la testa dal muro tirando un orecchio. Pare abbia mantenuto la sua imbattibilità, ma forse sapeva scegliere gli avversari. La Timpa riusciva piegarsi all’indietro sino all’inverosimile per poi riguadagnare miracolosamente l’equilibrio senza mai cadere. Una volta nel bar Della Noce mise fuoco sotto la sedia di Topo ed i carabinieri si limitarono a portarlo al ponte di Calabona dove lo lasciarono senza scarpe. Pare che arrivasse prima dei carabinieri e riprese a ballare intorno alla sedia di Topo, pur astenendosi dal dargli fuoco!

Lo stesso Pino lu Ratò, nella versione in algherese, quando si ubriacava metteva su un palchetto a Porta Terra e teneva comizi senza aver paura di essere sopravanzato da Hide Park.

Dopo la pesca l’equipaggio della sciabiga era riunito in una taverna e il capobarca, lu pratò, provvedeva alla distribuzione dei proventi della pesca. Erano tutti seduti intorno ad un tavolo, il mucchio di soldi nel mezzo ed il pratò dava inizio alla cerimonia: “ U a tu, u a tu ed alla fine “tres a mi (barca, motore e attrezzature). Se non riusciva a chiudere l’ultimo giro si faceva ridare gli ultimi soldi distribuiti, chiamava l’oste e diceva: “Posa vi finza a acabà achescia munera”. Era questa la ragione di memorabili ubriacature, anche se alla fine ovviamente erano distribuiti i tagli più piccoli.

La domenica dal Milese i pescatori, prudentemente riuniti dietro una tenda nell’ultima stanza, preparavano una ricca caponata con aragosta, pesce, patate e uova bollite, pomodori, anghira de olt (cipollotti) etc, il tutto servito su un letto di gallette. Quando  ancora non era vietato era anche aggiunto il prelibato, per chi ha potuto assaggiarlo, mosciame di delfino. Era un piatto straordinario i cui ingredienti variavano con le stagioni e le alterne fortune della pesca.  La caponata, sia di mare che di terra, era anche d’uso in una piccola bettola in vicolo Serra.
Adesso le uova bollite del Milese si sono trasformate nelle leggendarie focacce, ma rimane, anche se sempre più dimenticata, la  gloriosa vernaccia, sia pure quasi soppiantata da birra e, orrore, coca cola!

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