Salviamo il riccio di mare

Riccio viola (Paracentrotus lividus)
Riccio viola (Paracentrotus lividus)

Il riccio di mare assieme all’aragosta è uno dei frutti più preziosi e prelibati che ci offre il ricco mare di Alghero.

Il “bogamarì” ha da sempre accompagnato gli algheresi in molti momenti felici quando, in compagnia di amici e familiari, ci si recava nella scogliera preferita per rinnovare l’antica tradizione di una scampagnata in mare.

Non potevano mancare alla festa la focaccia e naturalmente il vino.

Ciascuno si sistemava al meglio scegliendo lo scoglio meno appuntito o cercando una pietra adatta sulla quale sedersi in riva al mare.

Il riccio aperto con il coltello (i più bravi) o con le forbici veniva sciacquato nell’acqua marina e immediatamente mangiato.

Una tradizione questa ripetuta da secoli che, come tutte le cose, tende al cambiamento: come capita spesso non sempre in meglio. Ad iniziare dai metodi di pesca e di consumo.

Sino agli ’50 del secolo scorso la pesca veniva praticata utilizzando una lunga canna tagliata longitudinalmente con due tagli a croce in una delle due estremità. Per tenere aperte le quattro alette si infilava un pezzo di sughero e si operava una legatura per tenere stretto il tutto.

Indispensabile oltre alla canna lo specchio (lu miral) sistemato nel fondo di un contenitore quadrato che serviva per vedere meglio il fondo e per poter scegliere i ricci medio-grandi scartando quelli piccoli.

Un metodo di pesca semplice ma, dal punto di vista ambientale, perfetto in quanto operava una selezione sul pescato molto intelligente.

Altri sistemi, molto meno utilizzati e ritenuti poco professionali, erano il “gangaro” e il “rontizinello” che operavano col metodo dello strascico.

La pesca dei ricci per i pescatori aveva anche una importante valenza economica. Durante la stagione invernale infatti questa pesca si aggiungeva a quella tradizionale del pesce e al lavoro nei frantoi. Una attività quindi molto importante perché integrava i magri guadagni invernali.

Oggi la pesca viene effettuata quasi totalmente dai sub non sempre attenti a evitare di raccogliere gli esemplari di piccole dimensioni.

Ma la pratica più devastante che ha ridotto drasticamente la presenza dei ricci di mare, in particolare nei banchi tradizionalmente più ricchi, è quella di “conservare” la polpa in vasetti per un consumo non immediato.

Questa pratica ha incrementato i consumi in maniera esponenziale soprattutto nei ristoranti e anche nelle famiglie.

Contrariamente al passato quando i volumi della pesca erano anche condizionati dalla presenza o meno di belle giornate e dal fatto che le maggiori vendite avvenivano nei giorni festivi, oggi si può procedere indiscriminatamente alla raccolta tutti i giorni.

Naturalmente se mancano i clienti si riempiono i vasetti.

Gli effetti sono facilmente visibili: tutta la costa che va dalla zona del “Burantì” al lungomare Dante è quasi priva di ricci. Non meglio se la passa l’area vicino alla “Maddalenetta” una volta ricchissima dei prelibati “bogamarì”.

Non c’è dubbio quindi che la “comparsa” del vasetto, unita ad un periodo di pesca troppo lungo (dal 1° novembre al 30 aprile), ha determinato un disequilibrio tra i volumi pescati e i tempi di riproduzione dei ricci causando quindi un progressivo depauperamento di questo prezioso frutto di mare.

Da non trascurare inoltre i pericoli di tipo igienico sanitario derivante da metodi di conservazione “fai da te” che non garantiscono assolutamente il consumatore.

Due ottimi motivi per il Legislatore perché provveda quanto prima a emanare una nuova normativa che regoli o addirittura abolisca la conservazione della polpa del riccio e salvaguardi meglio la salute dei cittadini.

Nino Monti

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